Ascoltare pop a volte è come aprire la porta di un frigo

Mi è caduta addosso la porta del frigorifero. Sì, mia moglie stava sbrinando il freezer e si è accorta che il frigo non si chiudeva bene. Mi ha chiamato e quando sono arrivato in cucina ho constato che in effetti la porta non si chiudeva, il tempo di fare un paio di tentativi e la porta del frigo, un frigo a incasso che se ne stava lì da vent’anni, si è sganciata, colpendomi di taglio sulla fronte. Un dolore incredibile, cui avrebbe fatto seguito un altrettanto incredibile bernoccolo, non avessi subito messo del ghiaccio sulla ferita, sì, perché la porta mi ha fatto un taglio sulla fronte, taglio che immagino nei prossimi giorni genererà un livido ben evidente. Ovviamente tutto ciò che era sulla porta del frigo, le bottiglie, le uova, il burro, i barattoli, tutto è caduto a terra, rompendosi nella quasi totalità dei casi. Si sono salvate giusto un paio di bottiglie di liquori e una di latte, per il resto un disastro, col pavimento pieno di vino, di acqua e di uova, oltre che di tanti, tantissimi pezzi di vetro, come nella canzone di De Gregori. A quel punto, mentre cercavo di contenere la bozza, mia moglie, sacramentando, ha cominciato a pulire, io, appena mi sono ripreso mi sono armato di metro per prendere le misure e sono corso a comprare un frigo a incasso nuovo, è estate e rimanere sprovvisti di frigo è impraticabile. Sapere che di qui a qualche giorno dovrò tornare davanti a una telecamera e fare anche un paio di serate in pubblico e sapere di avere un bernoccolo non è il massimo, ma del resto non è che io abbia puntato tutto sull’aspetto fisico, lo dico nel caso qualcuno pensasse magari anche legittimamente il contrario. Per questo tengo premuto ghiaccio con una veemenza che potrei paragonare a quella del mio omonimo arcangelo nel rigettare all’inferno gli angeli caduti, col risultato che sembrerò più un Sangiuliano dopo il trattamento Boccia che una versione flaccida di Hellboy, e a dirla tutta non saprei dire se sia stato poi questo grande affare.

Nei fatti quando ci avviciniamo alla porta del frigo, in genere, non ci aspettiamo che ci caschi in testa. Non sta lì con quello scopo, statisticamente credo succeda una volta ogni non saprei dire quante volte, a me è successa fortunatamente una sola volta nella vita, fin qui, e non conosco nessuno cui sia successa la medesima cosa. Le porte sono lì per uno scopo, e noi sappiamo che si possono aprire e chiudere, non prevediamo che possano caderci in testa e anche sapendolo, io ora lo so, continuerò a non prendere in considerazione questa ipotesi, che in qualche modo mi immobilizzerebbe di fronte al frigo.

È che ci sono azioni che compiamo quotidianamente, o comunque con una certa frequenza, senza bisogno di ricorrere direttamente al ragionamento. Non parlo di quelle che compiano automaticamente, come respirare, o pulsare il sangue attraverso il battito del cuore, parlo proprio di azioni che pretendono una certa serie di passaggi che, proprio in virtù del loro essere entrati nel nostro corredo esperienziale, riusciamo a compiere automaticamente, magari facendo anche altro o pensando a altro. Vi sarà capitato, per dire, di guidare la macchina parlando animatamente con qualcuno, dal vivo o al telefono, auspico col vivavoce. Siete lì che parlate e di colpo vi trovate a parcheggiare dove dovevate andare, senza neanche saper dire esattamente come ci siete arrivati. Ecco, questo. Oppure, scivolo simpaticamente sul trash, andate in bagno, sapete che dovete tirare lo sciacquone solo dopo esservi puliti, non viceversa, e non lo sapete perché state lì a farci su un ragionamento, lo sapete perché è così che va fatto e così avete fatto migliaia di volte. Sono automatismi che ci connotano, e la cui perdita è spesso associata a certe malattie degenerative che, appunto e tragicamente, conducono chi ne soffre in un vicolo orribile dove anche solo capire che il cibo in bocca va masticato e poi mandato giù usando la saliva diventa una montagna inscalabile. L’ipotesi, fortunatamente lontanissima, che ogni nostra azione anche quotidiana debba prevedere dei tentativi prima di andare a buon fine renderebbe il nostro vivere un inferno, in effetti, faticosissimo e indubbiamente anche logorante.

La musica pop, dovrei dire buona parte della musica, funziona esattamente così, come quelle azioni quotidiane che compiamo senza neanche star lì a pensarci su. Essendo l’armonia della musica tonale codificata su standard che ormai fanno parte del nostro corredo di conoscenze, ci capita spesso di sapere già in anticipo cosa sta per succedere in quelle canzoni che ascoltiamo anche per la prima volta. Non solo e non tanto per una questione di omologazione e prevedibilità, quanto piuttosto perché questo quel tipo di organizzazione dei suoni prevede. Pensate alla quinta di Beethoven. Tutti la conoscono, anche coloro che non hanno mai frequentato sale da concerti o teatri. L’attacco epico di quel ta-ta-ta-tà, seguito dall’altrettanto in apparenza epico ta-ta-ta-tà. Ecco, questo è un esempio perfetto, anche perché veloce e sintetico. La seconda parte di questo attacco è in realtà quanto di più rassicurante si possa pensare, prestateci attenzione. O meglio, provate a immaginare di sentire le prime quattro note senza la chiusura circolare delle altre quattro, quella simmetricità che appunto rassicura, perché parte di un discorso prevedibile, parte del nostro corredo di conoscenze tanto quanto il sapere che la porta di un frigo, nel momento di tirare la maniglia, si aprirà e non vi cadrà in testa. Per questo la stragrande maggioranza del pop, che di queste istanze è esternazione più leggera e veloce, ci suona familiare. Perché poggia costantemente su soluzioni che già conosciamo, come pensare a una frase con un inciso che si chiuda, senza lasciare nulla in sospeso. Quella forma di prevedibilità, che permette a chiunque abbia un minimo di conoscenza dell’armonia, di sapere esattamente dove la linea melodica di una canzone andrà a parare, è in realtà esattamente il motivo del successo di questo tipologia di brani, certo aiutato da suoni che a loro volta rientrino in un range che ci risulti altrettanto familiari, spesso pescati in un passato abbastanza passato da permettere una rilettura revivalistica senza cadere nell’eccessivamente nostalgico o, peggio, nell’archeologia. Può capitare anche in altri campi artistici, o dell’arte applicata all’intrattenimento, sia chiaro, penso a certi romanzi di genere o certe serie tv. Pescare negli standard delle soluzioni percorribili, così come nei cliché per la profilazione dei personaggi ci permette di imboccare delle scorciatoie, non dover star lì poi a perderci dentro descrizioni che ci richiederebbero tempo e spazio che presumibilmente non abbiamo. Certo, da noi in Italia questa faccenda è a volte stata presa troppo alla lettera, al punto da far vestire i personaggi delle serie sempre alla stessa maniera, neanche fossero la famiglia Simpson o Griffith, ma in quel caso si è semplicemente reso palese un meccanismo, si è scritto su una porta “tirare” ben sapendo che tutti o quasi avrebbero “spinto”.

La domanda che immagino ci si possa porre, o ci si debba porre, a sua volta frutto di un automatismo del quale non siamo messi a conoscenza, è se tutto ciò sia sbagliato, perché per nostra tendenza siamo usi a esprimere opinioni che diventano giudizi, intesi proprio come sentenze, e perché tutto ciò che non ci piace, o peggio ci infastidisce, non possiamo limitarci a ignorarlo, ma vogliamo proprio eliminarlo dalla faccia della Terra, rinchiuderlo in una cella isolata, sperando di non averne più notizie.

Ora, premesso che ho usato un’inclusiva prima persona plurale, pur appartenendo a quella ristretta categoria di persone che quei giudizi, non sentenze ma giudizi, li esprime per mestiere, frutto di studio e quindi supportati da una competenza, e so che leggere questa frase avrà mandato il sangue agli occhi a una porzione rilevante di quanti leggono, ma tant’è, pensate a chi volesse dirvi cose riguardo al vostro mestiere pur non essendo parte del vostro mondo se non incidentalmente poi ripassate da queste parti, ecco, premesso quindi che io sono stato per un po’ parte di un noi più per paraculaggine che perché in effetti sentissi un qualche spirito di gruppo, direi che di sbagliato nella banalità del pop non c’è niente, in sé, e non certo per quella sciocchezza del fatto che le note sono sette, tanto sciocca che anche solo stando alla codifica fatta da Guido d’Arezzo sarebbero dodici. Il pop non è sbagliato per quel suo essere scontato, quindi di suo tendente all’ovvio. Può semmai essere sbagliato, nel senso di discutibile, per altro, quando è pigro, quindi non cerca neanche una soluzione minima di originalità. O quando diventa talmente tanto citazionista da scivolare nel plagio d’intenzione, che non è plagio vero e proprio, quindi non è perseguibile, sempre che plagiare qualcuno nel pop porti mai davvero a una qualche sentenza di colpevolezza, ma è sostanzialmente un commettere qualcosa di illecito sapendo di non poter essere beccati, forse anche peggio da un punto di vista etico.

Quindi, ribadisco, niente di sbagliato, perché con questi ingredienti questi sono i risultati possibili, poi, chiaro, a furia di mangiare cibi preconfezionati con sapori facilmente riconoscibili finirà che non saremo più in grado di farci piacere qualcosa di più genuino o anche solo complesso, e alla lunga finiremo per donare il fegato al CERN, perché ci faccia su qualche esperimento, il che riportato al discorso musicale equivale a dire che ci stiamo analfabetizzando, e questa analfabetizzazione musicale va di pari passo con una analfabetizzazione generale, che ci porta a usare meno parole, conoscere meno argomenti e quindi confezionare pensieri più esili con il poco che abbiamo a nostra disposizione, come dire che siamo decisamente più deboli, ma di suo non c’è niente di sbagliato, come una porta di un frigo che sta lì, la apri e la chiudi, non stando mai a pensare che un giorno potrebbe caderti in testa facendoti un male cane.

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Michele Monina, nato in Ancona nel 1969 è scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, stand-up comedian da scrivania. Ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce il videocast Musicleaks per 361Tv e insieme a sua figlia Lucia il videocast Bestiario Pop. Nel 2022 ha portato a teatro il reading monstre "Rock Down- Altri cento di questi giorni" che è durato 72 ore e 15 minuti ininterroti e ha visto il contributo di 307 lettori.

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