Al concerto di Enrico Ruggeri, un uomo e un artista libero

Roba d’altri tempi. C’è questa espressione gergale, di uso comune, atta a indicare qualcosa che è indubbiamente ascrivibile a un passato cui guardare con ammirazione, forse anche con nostalgia e rimpianto. Uno lo dice, roba d’altri tempi, e quasi gli verrebbe voglia di esserci ancora, in quegli altri tempi, a prescindere se in effetti negli altri tempi in questione una roba del genere ci sia realmente stata, e non piuttosto ci faccia riferimento con una qualche avvedutezza, e a prescindere dal fatto che in quegli altri tempi si stesse realmente meglio di quanto non si stia oggi. Con la nostalgia, del resto, funziona così, uno ci guarda, volendo ci si rifugia, ma è in realtà quasi sempre una proiezione fatta da un presente nel quale ci ritrova coi piedi ben piantati a terra. Poi ci sono occasioni, e quella di cui vado a parlarvi è indubbiamente una di quelle, nelle quali ti viene da dire “roba d’altri tempi” senza un minimo di rimpianto, anzi, con la consapevolezza di essere in quella parte di oggi più interessante, i riferimenti al passato quelli giusti, mai nostalgici, mai lacrimosi, semmai spavaldi e densi di consapevolezza. Con qualche sfumatura di gigioneggiamento, certo, perché siamo in quell’area del mondo dell’arte applicata alla musica nella quale l’attitudine gioca un ruolo importante, e una rockstar deve gigioneggiare, foss’anche per dare al pubblico quel che il pubblico si aspetta e si merita, ma con una coerenza che oggi come oggi appare rara, se non addirittura chimerica.

Sono stato al concerto di Enrico Ruggeri ai Magazzini Generali. Ci sono andato con mio figlio Tommaso, venti anni a giugno, perché il compito di un genitore è anche quello di educare i propri figli. E ci sono andato nonostante, ne ho parlato direi a sufficienza negli ultimi giorni, questo non sia esattamente un momento nel quale l’idea di uscire di casa per andare a un concerto mi sembri così naturale. Solo che io ai concerti di Enrico Ruggeri ci sono andato qualche decina di volte, il primo l’11 luglio del 1988, per intendersi, allora alle Cave di Sirolo, quindi so bene quanto un concerto di Enrico Ruggeri abbia la capacità di risollevare l’animo, quindi eccomi qui. Sì, perché il racconto abbandona un mesto passato per applicarsi al presente, pur con un vago sapore di “roba d’altri tempi” che aleggia nell’aria.

Enrico Ruggeri è un uomo libero. È un artista e uomo libero, connubio virtuoso che ne ha fatto, ormai oltre quarant’anni fa, uno dei miei artisti preferiti, e non parlo certo solo di artisti italiani, e nel corso degli anni uno dei miei amici più cari nel mondo dello spettacolo, anche qui, il circoscrivere la nostra amicizia solo al novero del mondo dello spettacolo non è un volerla sminuire, ma piuttosto un raccontare del come e perché nel tempo io e Enrico siamo diventati amici, la stima e la voglia di conoscersi a fare da scintilla che ha acceso la miccia. Il suo essere un artista e uomo libero ha fatto sì che, per dirla con parole sue, negli anni non sia mai arrivato a riempire San Siro, ma abbia sempre avuto un pubblico fedele intenzionato a attraversare anche tutta l’Italia per ascoltarlo, qui c’è gente arrivata dalla Sicilia come dalla Calabria, nel tempo anche solo vederlo in certi ambiti che avrebbero dovuto accoglierlo con gratitudine è diventato difficile, il libero pensiero si paga. Questo a fronte di un talento nello scrivere canzoni piuttosto raro in patria, ho spesso accostato il suo modo di attraversare con eleganza e naturalezza i generi, dal cantautorato al rock, passando per la canzone francese e il punk, a suo agio di fianco a un classico quartetto d’ordinanza quanto con alle spalle un’orchestra, a quello di Elvis Costello, e sono convinto che fosse nato oltre Manica di lui si farebbero vanto in tanti, non che il tanti sia sempre sinonimo di qualità. Qui siamo in tanti, i Magazzini Generali, luogo scelto per questa “festa” sono pieni fino all’orlo, io e Tommaso siamo in balconata, di fronte a noi un Pierfrancesco Majorino sempre presente ai concerti di Rouge, oltre che due dei tre figli del nostro, Pico e Ugo, Eva sta al mio fianco coi suoi compagni di scuola. Dall’alto lo spettacolo è esaltante, perché sul palco Enrico si fa accompagnare da una band potente, batteria, basso, due chitarre, piano e tastiere, più incursioni ripetute di tromba e cori, e perché la gente, la sua gente, canta ogni singola canzone con trasporto e commozione, oltre che divertimento. Anche le nuove, perché Enrico è quei per festeggiare l’uscita del suo quarantesimo album La caverna di Platone, e stasera farà sette delle nuove tracce, per dirla come si usa in questi casi, roba d’altri tempi. In questa epoca di karaoke e di greatest hits portati sul palco, infatti, sono molti gli artisti con lunghe o meno lunghe carriere alle spalle che decidono di deporre le armi e assecondare l’idea che ai concerti si vada per cantare in coro le vecchie canzoni, chi se ne frega di farne di nuove, mentre lui, Enrico Ruggeri, è sempre sul pezzo, e le nuove canzoni le fa, eccome. Anche perché, torniamo al concetto di uomo e artista libero, le nuove canzoni sono potenti, precise, mirate a descrivere con poesia e attitudine punk l’oggi. Senza troppi sconti alla cassa, per altro. Il poeta, per dirne una, è una fotografia perfetta di come oggi si preferisca stare su posizioni comode, che non disturbino nessuno, men che meno i potenti, al punto che chi dice la sua che sia realmente sua rischia di essere fatto fuori, a voi interpretare come. Enrico canta, suona, si muove sornione e rockstar sul palco, e parla. E quando parla, come quando canta, dice la sua. Una sua che molto spesso condivido, il libero pensiero è quello che ci ha fatto conoscere e ci ha unito, ai tempi, ma che rispetto anche quando non condivido, perché oggi, in questo oggi nel quale nessuno si espone, prende una posizione, dice realmente la sua, stare su un palco e scandire una per una le proprie idee è qualcosa da guardare con rispetto e ammirazione. Figuriamoci quando quelle idee sono messe in musica e parole, e che Enrico Ruggeri sia uno dei nostro più grandi cantautori non serve certo stia qui ora a ribadirlo, la scaletta del concerto, fitta di classici della nostra canzone d’autore, da Il portiere di notte a Poco più di niente, da Mare d’inverno a Polvere, passando per Mistero, Quello che le donne non dicono, nella versione originale, non in quella tristissima e anche vagamente incomprensibile che ora Fiorella Mannoia porta in giro, dove l’”un altro sì” finale diventa No, vai poi a capire perché, inutile star qui a citarle tutte. Canzoni potenti che dal vivo esplodono, si dilungano, perché Enrico e la sua band, ci tiene sempre a farlo sapere, non usano sequenze, quindi possono ben decidere di far durare un assolo o un passaggio di una canzone più di quanto non fosse previsto, e diventano patrimonio comune. C’è pure il momento tiktokkabile, quando nell’introdurre la conclusiva Contessa ha intonato un pezzetto di Espresso Macchiato di Tommy Cash, perché l’autoironia è cifra che fa parte del suo carattere, e perché la canzone dell’artista estone, in effetti, ci sta perfettamente sopra.

Enrico ha dodici anni più di me, siamo nati a distanza di pochi giorni sul calendario, a inizio giugno, ma a vederlo sul palco, mentre solleva l’asta del microfono calciandola con un colpo di tacco, o solleva lo stivaletto su una cassa, figuriamoci se usa gli ear monitor, privandosi del piacere di ascoltare il pubblico cantare, in più parti dello show si allontana dal microfono proprio per gustarselo, o mentre salta con la chitarra elettrica nera a tracolla non si direbbe, ma anche a vedermi muovere i lunghi capelli a tempo non si direbbe che a giugno farò cinquantasei anni, sono pronto a scommetterci. Con chi è libero di pensare e di dire quel che pensa, ditemi voi chi altro, tra i cantautori e i cantanti con lunga carriera alle spalle, ha scritto una canzone su Gaza come lui, Zona di guerra, introdotta da un monologo che finisce con una stoccata contro chi, pacifista di lungo corso, oggi si ritrova a inneggiare a un riarmo da ottocento miliardi di lire, Dio mio, ancora a giocare a lanciarsi le bombe.

Io ricordo perfettamente quando ho conosciuto le canzoni di Enrico Ruggeri, e come le ho conosciute. Facevo il primo superiore, in Ancona, e l’allora mio compagno di banco, Luca Paolinelli, mi fece ascoltare Nuovo Swing, da poco presentata sul palco del Festival di Sanremo, aprendomi a un mondo. Quel ragazzo con quegli occhialoni da sole con la montatura bianca faceva una cosa strana, mescolando una ballata con uno swing elettronico, ma io queste cose allora non le capivo, usando un linguaggio alto, colto. Da quel momento quell’amore non è mai venuto meno, anzi, si è ingigantito. Quarantuno anni a seguire un artista, nel mentre divenuto mio amico, non è esattamente uno scherzo. È anche così che si forma un libero pensiero, credo, scegliendo la musica giusta da ascoltare, i cantautori giusti da frequentare, le canzoni giuste da cantare in coro.

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Michele Monina, nato in Ancona nel 1969 è scrittore, critico musicale, autore per radio, tv, cinema e teatro, stand-up comedian da scrivania. Ha pubblicato 97 libri, alcuni scritti con artisti quali Vasco Rossi, Caparezza e Cesare Cremonini. Conduce il videocast Musicleaks per 361Tv e insieme a sua figlia Lucia il videocast Bestiario Pop. Nel 2022 ha portato a teatro il reading monstre "Rock Down- Altri cento di questi giorni" che è durato 72 ore e 15 minuti ininterroti e ha visto il contributo di 307 lettori.

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