Parlavo giorni fa di New Amsterdam, qui https://361magazine.com/i-red-hot-chili-peppers-non-hanno-mai-suonato-alle-falde-del-monte-conero/, quando vi raccontavo di come mi piacerebbe prima o poi riuscire a rendere quegli interventi di batteria che costellano la colonna sonora di tutta la serie, giunta infaustamente alla sua conclusione definitiva dopo le prime cinque stagioni. Vi raccontavo anche di come io sia particolarmente appassionato di medical drama, ma senza che io stia qui a ripetere tutto quello che ho già detto credo se siete curiosi vi convenga andare a leggere quel pezzo, per poi tornare qui. In realtà oggi vi parlerò nuovamente di New Amsterdam, perché c’è un altro aspetto che ho trovato molto singolare, aspetto che però è emersa solo verso la fine della quinta stagione, la faccenda della batteria è presente sin dalla prima puntata. Come ogni medical drama New Amsterdam intreccia gli avvenimenti della struttura ospedaliera da cui prende il nome, il più grande ospedale pubblico degli USA, a New York, con le vicende private dei protagonisti, in particolar modo di Max Goodwin, che è il direttore sanitario ma anche quello intorno a cui ruota buona parte della trama. Questo nonostante a un certo punto sembrava che il medico in questione sparisse, lì a inseguire Helen Sharpe, la sua fidanzata, oncologa di fama internazionale, a Londra. La sparizione quasi violenta di Helen Sharpe dall’ultima stagione, per altro accompagnata dal singolare fatto che come foto di copertina su Netflix appare appunto una sua gigantografia, è uno di quei fenomeni inspiegabili che a volte capitano nelle serie tv, sappiamo tutti di come Patrick Dempsey, il dottor Sheppard di Grey’s Anatomy, marito della protagonista della serie, quella Meredith Grey che aveva dato via al titolo, è stato sostanzialmente ucciso di colpo perché avrebbe tradito, l’attore, non il personaggio, sua moglie, molto amica di Shonda Rhyme, autrice assoluta della serie, oltre che di un tot di altre serie. A suo tempo era successo qualcosa di simile anche dentro Lost, dove Michelle Rodriguez che interpretava Ana Lucia Cortez era sparita dalla serie, il personaggio ucciso fuori dalla trama originale, perché beccata mentre guidava in stato di ebbrezza durante i giorni di ripresa, JJ Abrams a licenziarla in tronco senza pensarci due volte. Freema Agyerman, l’attrice che interpreta Helen, non è stata licenziata da New Amsterdam, perché, spoiler, poi apparirà in una delle ultime puntate, ma di fatto è uscita di scena in maniera anche abbastanza inspiegabile, sancendo da una parte il ritorno di Max Goodwin al New Amsterdam, dall’altra il suo essere più che mai anima in pena, lui aveva già perso violentemente sua moglie, lasciando soli Max e loro figlia Luna. Per questo, per la sparizione di Helen, la quinta stagione è incentrata sull’avvicinamento tormentato tra Max Goodwin e la nuova oncologa, giunta al New Amsterdam proprio per sostituire Helen, la dottoressa Elizabeth Wilder, interpretata da Sandra Mae Frank. Piccolo dettaglio, tenendo conto che l’ultima stagione di New Amsterdam è andata in onda nel 2023, e che la dottoressa Wilder è entrata in scena quindi nel 2021, e tenendo conto che Sandra Mae Frank ha oggi trentacinque anni, stando a quanto trapela da New Amsterdam, serie che come tutte le serie è molto meticolosa nel riproporre fatti accuratamente realistici, negli USA una dottoressa di trentuno anni può essere primario di oncologia del più grande ospedale pubblico nella nazione. Del resto Ryan Eggold, l’attore che ha interpretato dal 2018 Max Goodwin, lui che nel primo episodio entra in scena come il direttore sanitario del New Amsterdam, di anni oggi ne ha quaranta, quasi quarantuno. Quindi stando a quel che dice New Amsterdam un dottore di trentaquattro anni, forse ancora di trentatré potrebbe diventare direttore sanitario del più grande ospedale della nazione. Se pensiamo ai primari e ai direttori sanitari dei nostri ospedali, o anche solo a quando un medico o una qualsiasi altra figura professionale qualificata riesce a trovare un posto nella nostra, di nazione, viene quasi da uscire all’aperto nelle ore di punta sperando in uno di quei fenomeni di autocombustione che erano la base dalla quale era partito un vecchio film horror di quando ero giovane io, Poltergeist, film che scopro essere del 1982 e soprattutto con un soggetto di Steven Spielberg.
Comunque non è questa faccenda dell’età che mi ha spinto a scrivere anche oggi di New Amsterdam, per altro con un tempismo che potrebbe suonare sospetto, la serie è stata chiusa nel 2023, non fosse che l’ultima stagione è uscita su Netflix solo recentemente. No, l’America, fatemi usare un’espressione figlia dell’imperialismo occidentale, è il paese delle grandi opportunità, lasciatemi credere che lì esista quel tipo di meritocrazia che scavalca baronati e gerarchi da noi inscalfibili. Quello di cui voglio parlarvi è, spoiler, della tormentata storia d’amore tra Max e Elizabeth, Max sembra avere una particolare predilezione per le oncologhe, evidentemente. Per tutta la quinta stagione assistiamo a un estenuante balletto tra i due, tra movimenti in avanti seguiti da repentini ritirate, il tutto accompagnato per altro dalla bislacca figura di Ben Mayer, interpretato da Conner Marx, letteralmente il terzo incomodo. Perché un aspetto che vi ho taciuto fin qui, volontariamente, aspetto direi abbastanza rilevante, è che la dottoressa Elizabeth Wilder, come l’attrice che la interpreta, Sandra Mae Frank, è sordomuta. Quindi si esprime solo con il linguaggio dei segni e riesce a dialogare con chi il linguaggio dei segni non lo conosce, e soprattutto a muoversi agilmente in sala operatoria, dove magari non c’è modo di usare le mani per parlare, grazie alla figura del suo interprete, appunto Ben Mayer. È lui che la accompagna sempre, dicendo a voce alta quel che lei dice con le mani, e riportandole quel che gli altri dicono a lei. Anche quando si tratta di faccende personali. Il fatto che Sandra Mae Frank, l’attrice chiamata a interpretare la dottoressa sordomuta, sia a sua volta sordomuta è ovviamente un’adesione coerente a quelle politiche che qualcuno chiamerebbe woke, per cui un italiano viene interpretato da un italiano, un indiano da un indiano, un nano da un nano e un sordomuto da un sordomuto. La faccenda del nano non si trova qui per caso, chiaramente, e il fatto che io abbia usato la parola nano immagino farà rabbrividire chi a quella modalità woke è avvezzo, perché uno dei medici che operano al New Amsterdam, nel reparto di Pronto Soccorso diretto dalla dottoressa Lauren Bloom, è il dottor Mark Walsh, splendidamente interpretato dall’attore, nano, Matthew Jeffers. Come altro definire, altrimenti, un personaggio che oltre che nano è anche stronzo come pochi, molto spesso incapace di empatia, come se fosse stato scritto da un fan di De André e in modo particolare della canzone Un giudice, tutti ricorderete cosa dice dei nani in quei celebri versi Faber. Comunque Sandra Mae Frank è sordomuta e lei è stata chiamata a interpretare, assai bene, la dottoressa Wilder, di cui Max si innamora, pur dovendo ancora farsi chiarezza dei suoi sentimenti nei confronti della sua ex fidanzata, Helen Sharpe, come nei confronti di cosa fare della propria vita. Più le puntate procedono verso l’imprevista fine della serie, imprevista fino a un certo punto, perché poi il finale è un finale vero e proprio, dove tutte le trame arrivano a una conclusione, il rapporto tra Max e Elizabeth si fa più intenso, e col farsi più intenso il ruolo di Ben diventa davvero del terzo incomodo, così il bravo interprete fa un passo a lato, uscendo di scena ogni volta che i due devono in qualche modo parlare di loro. Il risultato è che nelle ultime puntate, diciamo per quasi metà della quinta e ultima stagione, assistiamo a minuti e minuti di scene nei quali i due innamorati, tra i tanti ripensamenti, si parlano solo attraverso il linguaggio dei segni, senza essere messi a conoscenza di cosa si stiano in effetti dicendo. A un certo punto, in una puntata chiave, c’è un cameo importante, specie immagino per Sandra Mae Frank, quello di Marlee Matlin, si intuisce a interpretare la dirigente di un altro ospedale giunta fino a New York per cercare di portarsi via la brava oncologa Wilder. Anche qui assistiamo a diversi dialoghi tra le due attrici, per chi non lo ricordasse Marlee Matlin è stata nel 1986 la protagonista con William Hurt del film Figli di un Dio minore, attrice sordomuta che interpretava appunto una sordomuta, ruolo che le è valso nel 1987 il Premio Oscar come Miglior Attrice Protagonista, il film premiato con quello come Miglior Film. Anche qui noi che non conosciamo il linguaggio dei segni siamo stati tagliati fuori, e nel descrivere così la faccenda, lo so, sto in qualche modo esprimendo un giudizio, e un giudizio negativo. Ma in fondo un po’ è quello che penso. Comprendo la volontà di non tradire una situazione comune, il fatto che chi usa il linguaggio dei segni viva in una sorta di mondo a parte, ma a oggi non sappiamo cosa il personaggio di Marlee Matlin sia andato a fare al New Amsterdam, anche se il fatto che se ne sia andata da sola ci dice che se sua volontà era assumere la dottoressa Wlider per un altro ospedale le è andata male, ma non sappiamo neanche perché, dopo qualche bacio fugace da ragazzini, alla fine Max e Elizabeth non si siano messi insieme, Max annuncia il suo lasciare l’ospedale per andare presso le Nazioni Unite in Svizzera per provare a ottenere qualcosa per i pazienti lavorando dentro la Macchina. I due se lo sono detti, a più riprese, ma noi non abbiamo potuto capirlo, perché Max, che inizialmente accompagnava con le parole quello che diceva a gesti, una volta fatto pratica ha smesso di farlo, e perché, a differenza di quel che succede, che so?, nello spin-off di The Walking Dead dedicato a Daryl Dixon, ambientato tra Parigi, Mont Saint Michel e la campagna francese, quando tutto quello che viene detto in francese è lasciato in francese, ma sottotitolato, qui tutto resta lì, solo a vantaggio di chi sa leggere il linguaggio dei segni. Se la volontà era quella di farci vivere un disagio, il medesimo di chi deve spesso ricorrere a aiuti esterni per essere capito o per capire, direi che il goal è stato fatto, peccato che si sia persa molta della fluidità nel racconto, racconto che è comunque appunto tale, cioè un racconto, qualcosa che prevede un punto di vista, un autore, una voce narrante, degli interpreti, e che stavolta è a mio avviso rimasto impigliato in un tentativo radicale di essere filologicamente corretti. Provo disagio ogni volta che sento parlare di woke o di cultura woke, ma temo che se mai una cultura woke che tale si possa definire esistesse avrebbe proprio la forma di Max e Elizabeth che si parlano col linguaggio dei segni per minuti e minuti, tagliando fuori tutti noi che non sappiamo usarli.
Chi invece ha saputo trovare, a mio insindacabile modo di vedere, un linguaggio facilmente comprensibile a chiunque, per esprimere un mondo del quale non fa parte e del quale, si presume, non siamo tenuti a far parte anche noi che con questo racconto ci confrontiamo è Acquachiara, ancora fino al prossimo 10 ottobre la detentrice del Premio Music For Change, 10 ottobre data nella quale Alice Caronna, Dimaggio, Giulia Leone, Marea, No Dada, Rossana De Pace e La Noce si andranno a contendere il primo premio della prossima edizione. Arrivata a Cosenza nell’ottobre 2024, Acquachiara, venticinquenne cantautrice romana, ha affrontato con grande originalità e personalità il tema “Disuguaglianze e marginalità sociali” scrivendo la canzone Piacere, Sofia, lasciando che fosse proprio l’incedere dell’armonia e quindi della melodia a rendere l’idea di un muoversi nel mondo differente, quello della protagonista. Un modo per far immedesimare l’ascoltatore, in maniera quasi subliminale, del resto la musica è sublimazione e sublimazione e subliminale sono parole che hanno indubbiamente delle radici comuni, con la storia di Sofia, la cui storia viene narrata nel brano, senza per altro bisogno di specificare nei dettagli il suo handicap, lì presente ma mai detto. Una canzone, “Piacere, Sofia”, che si distacca per tematica da quelle contenute nell’EP “Come si fa”, ma che in verità è assolutamente coerente del modo obliquo di guardare al mondo che Acquachiara esterna nelle sue parole come nelle note che va a comporre. Un progetto interessante, da seguire senza correre il rischio di star lì a chiedersi chissà mai avrà voluto dire, che di questi tempi, tra serie Tv e testi della trap, è già un risultato più che interessante da cui partire.