Da anni sta proliferando una nuova interessante moda. Le mode, per loro natura, sono sempre interessanti, antropologicamente, perché ci dicono molto se non tutto di un determinato periodo storico. La moda che sta proliferando ora, a dirla tutta, è abbastanza circoscritta, qualcuno userebbe la parola nicchia, ragion per cui non sono esattamente certissimo che si possa proprio parlare di moda, ma di fatto conosco personalmente diversa gente coinvolta in questa moda, quindi azzardo questo discorso. Da anni, dicevo, sta proliferando una nuova interessante moda: l’urbex. Partiamo dalla parola urbex, che è la crasi tra urban exploration, cioè esplorazione urbana. Si tratta infatti di quell’attività che alcune persone svolgono andando a esplorare luoghi abbandonati, decadenti, poco noti e comunque in avanzato stato di degrado, al fine di documentarne il fascino e la bellezza attraverso foto e video, più spesso foto. Vecchie fabbriche, ville, parchi gioco, ospedali, chiunque abbia in qualche modo fatto ricerche a riguardo avrà senza dubbio incontrato reportage particolareggiati di quella vecchia casa che si trova nella propria città, sulla quale girano leggende e storie bizzarre, e sulla quale chissà quanto si è fantasticato. Oppure avrà conosciuto luoghi lontani, in zone delle quali non si era neanche sentito il nome, sempre e comunque mettendo al centro storie e dinamiche che ci dicano quanto ciò che ha costruito l’uomo è per sua natura deperibile, quindi destinato al declino.
Le attività degli urbex, giocoforza, comportano per chi le pratica rischi abbastanza importanti, perché per visitare qui luoghi tocca spesso scavalcare cancelli, camminare in luoghi pericolanti, arrischiare percorsi in luoghi che non solo sono teoricamente spesso proprietà private, quindi interdette di loro a essere visitate da sconosciuti, ma anche luoghi considerati appunto inagibili, quindi dai quali tenersi a debita distanza. Credo che in fondo il successo di questa pratica, ripeto di moda seppur di nicchia, risieda anche nel rischio, oltre che, azzardo, nell’illegalità, non credo serva io stia qui a sottolineare come il proibito ha un grado di fascinazione sempre alto, così come il saper di star facendo qualcosa che preveda un rischio anche mortale (altrimenti non si spiegherebbero quelli che si gettano con un parapendio, o che corrono in bici sui crinali delle montagne, quelli che fanno immersioni in luoghi pieni di predatori come quelli che scelgono di stroncare i dischi di artisti con fanbase particolarmente affezionate ai propri beniamini).
Da seguace della psicogeografia, ideata e codificata da Guy Debord all’interno dell’Internazionale Situazionista nel 1958, poi rinfrescata da Iain Sinclair attraverso le sue tante opere, London Orbital su tutte, quindi essendo un viaggiatore che preferisce andare alla deriva, vagando alla ricerca di quelle connessioni tra luoghi e persone che quei luoghi abitano o hanno abitato, non posso che pensare che gettare lo sguardo su tutti quegli spazi che negli anni sono stati abbandonati, con ancora i segni delle vite che lì sono passate, chiaramente anche per questo parchi gioco, ospedali, scuole e ville sfarzose ormai cadenti sono le principali mete di queste peregrinazioni.
Esattamente come per la psicogeografia, filosofia che praticavo assai prima di sapere che fosse in effetti qualcosa di codificato da altri, scoperta per altro fatta molto psicogeograficamente leggendo un fumetto, Serpenti e scale di Alan Moore, dove il barbuto e lungocrinuto autore di Northampton raccontava di questa teoria e della sua amicizia con Iain Sinclair, oltre che metteva in evidenza un sacco di connessioni con quanto stavo facendo che erano assolutamente impressionanti, ne ho già parlato più volte altrove, anche l’urbex fa parte di quel che in passato ho più e più volte fatto senza sapere che fosse qualcosa di codificato e condiviso con altri in altre parti del mondo.
Quando ero giovane, infatti, prima di cominciare a scrivere, nel senso di prima di cominciare a scrivere pensando che la scrittura sarebbe divenuta il mio mestiere, scrivere scrivo dalla prima elementare, come tutti, mi è capitato un sacco di volte di entrare in luoghi della mia zona che erano interdetti al pubblico proprio perché cadenti e inagibili, in quanto abbandonati. In alcuni casi quei luoghi erano abbandonati per le storie di chi ci aveva vissuto, storie che spesso erano divenute diverse dai fatti realmente avvenuti, frutto di un passaparola che non solo non lesinava in dettagli fantasiosi, ma spesso interveniva pesantemente anche sulla trama, a volte, invece, erano abbandonati in quanto troppo rovinati da uno dei tanti cataclismi che ha colpito la mia città natale e le zone limitrofe, Ancona, vuoi per il terremoto del 1972, vuoi addirittura per quel che gli americani hanno fatto in zona durante la guerra, vuoi, semplicemente, perché rimettere in piedi certe situazioni avrebbe preteso economie che una città di provincia difficilmente si sarebbe potuta permettere prima che esistessero bandi e PNRR.
Ne cito due, di questi luoghi, ma l’elenco potrebbe e dovrebbe essere molto più lungo. Da ragazzino, credo ai tempi si sarebbe detto bambino, visto che alle medie spesso si era ancora in fase infantile, mi capitava spesso di andare a giocare in tre campi del mio quartiere. Tre campi piuttosto vicini, che noi ragazzini/bambini sceglievamo in base alla loro praticabilità, poi dovendo fare i conti con chi aveva fatto le nostre medesime scelte prima di noi e soprattutto con l’arrivo di gente più grande e che, in barba all’ordine di arrivo, avrebbe comunque fatto valere la propria maggiore prestanza fisica. Andavo al campo del Pincio, perché anche in Ancona c’è un colle con un parco che si chiama Pincio, un campo abbastanza piccolo, in sabbia, con due porte regolamentari assolutamente spropositate e dove noi si giocava anche undici contro undici, credo sia più piccolo di un campo da calcetto. Lì vicino c’era poi il campo della Lunetta, dove molto immaginificamente ora si trova un parcheggio, campo più grande, sempre in sabbia e sempre con porte regolamentari, il migliore della covata, e al quale si accedeva dal Pincio passando attraverso un tunnel che passava sotto dei residui di mure di cinta credo romane, ancora lì. E infine c’era il campo della Cittadella, che è la fortezza di Ancona, campo teoricamente con l’erba, in realtà fatto di terra e sassi, quindi assai poco gradito a noi giovani, chiamato della Cittadella non perché fosse dentro le mura della fortezza, ma in quanto appoggiato a una di quelle mura, vicino a Porta Santo Stefano. Lunetta e campo della Cittadella erano in realtà distanti a loro volta neanche cento metri, seppur in campo della Lunetta fosse rialzato, e avesse da un lato un fosso dove si trovava l’orto di una sorta di orco che era solito spararci col fucile a sale se mai provassimo a scendere per recuperare il pallone quando cadeva giù, cosa che succedeva praticamente ogni dieci minuti. C’erano poi dei prati, lì intorno, dove si poteva andare a giocare in caso tutti e tre fossero occupati, al tempo il calcio era attività molto praticata, e io, che vivevo in quel quartiere momentaneamente, in attesa che si ripristinasse la casa che era stata rovinata dal terremoto, continuando comunque a frequentare anche il mio vecchio quartiere, il centro storico, avevo a disposizione almeno altri quattro campetti, quello in cemento dell’oratorio della parrocchia di San Domenico, dove mi sono rotto il malleolo, quello in cemento grezzo dell’oratorio di San Francesco alle Scale, dove mi sono ferito il braccio, sei punti, quello sotto la strada che porta alle vecchie carceri, in terra battuta, lunghissimo e strettissimo, e infine quello che si trovava dietro Villarey, dove oggi ha sede l’università di Economia, campo in sabbia chiamato Il Maneggio perché in effetti era appunto un maneggio, diciamo che posti dove giocare ne avevamo.
Tornando però ai miei tre campi preferiti, quelli anche più vicini alla mia casa di allora, nel tunnel che portava dal Pincio alla Lunetta c’erano un paio di grandi gallerie subito sotto il soffitto, non troppo alte. Luoghi scuri e umidi, quindi assai freschi in estate, ma anche abbastanza pericolosi, a vista. Ecco, noi, incoscientemente, ogni tanto ci addentravamo da quelle parti, andando a vagare per un po’, provvisti di torce, salvo poi tornare al punto di partenza, quindi senza sapere esattamente dove quelle gallerie conducessero. Leggenda vuole portassero nella non troppo distante fortezza della Cittadella, e in effetti anche dentro il parco della Cittadella si vedevano alcune gallerie simili, ma è poi acclarato che tutto il centro di Ancona è attraversato da gallerie usate ai tempi dai Carbonari, oltre che da una serie di grotte naturali che fungevano da bacini idrici, oggi visitabili una tantum accompagnati da guide FAI. L’idea di entrare in una galleria, dopo aver scalato un muro in mattoni facile da scalare, perché erano mattoni antichi, quindi irregolari, e poi magari ritrovarsi a qualche chilometro, al centro di Ancona, era indubbiamente affascinante, il fatto che quelle gallerie fossero strette, buie, con ragni, topi e altro, era però un deterrente capace di cacciare qualsiasi fascinazione. Anche vedere come fosse la fortezza della Cittadella era qualcosa che ci incuriosiva molto, perché, dalla guerra sono passati alcuni anni, è noto, ancora quella costruzione è chiusa, e solo per qualche tempo è stato possibile visitarne una minimissima porzione. Io ho visto parecchie sale, coi miei amici, approfittando di un periodo nel quale il Comune stava facendo lavori di messa in sicurezza di parti pericolanti e per farlo aveva aperto il grande cancello, lasciandolo poi incautamente appoggiato senza catene o altro. Le sale che ricordo erano molto imponenti, come ampiezza, e anche decisamente malandate, corredate da tutta una serie di disegni nelle pareti fatte con gessi e spray, disegni che rappresentavano, ricordo, diavoli e altri mostri. Ancona è da sempre considerata una città importante per il satanismo, credo per il suo essere stata in passato parte dello Stato Pontificio, quindi si favoleggiava tra noi che lì si tenessero messe nere, un po’ come si dice capiti a Torino, in questo Dario Argento ha detto molto. Sapere quello e vedere quei disegni, confesso, è stato abbastanza per tenerci poi alla larga da lì, ma a distanza di quasi cinquant’anni mi salirebbe la curiosità di sapere perché quella fortezza sia ancora chiusa in quello che, a ben vedere, è comunque il più grande parco cittadino (un tempo sede di popolatissime Feste dell’Unità, oggi sprovvisto anche di un semplice bar dove comprare un ghiacciolo). L’accesso a quel forte, comunque, è permesso anche da almeno altre due parti della città, su via Torrioni, per dire, e lungo le mura che corrono in via Circonvallazione, proprio di fronte a quelle casette basse e con finestre a vista di chi passa che credo fossero un tempo case popolari sputate in uno dei quartieri più ricchi di Ancona.
L’altro posto dove ho praticato più volte urbex in zona, senza sapere si chiamasse Urbex, era invece nella vicina Castelferretti, paese limitrofo a Falconara Marittima, un tempo roccaforte della famiglia Ferretti, appunto, vicino all’uscita dell’autostrada A14 Ancona Nord. Ecco, se uscite a Ancona Nord e imboccate la superstrada che porta verso il centro città, vi capiterà di vedere dopo poco sulla destra un colle con una fila di Cipressi che salgono verso l’alto, in basso, se arrivate di notte, potete ben vedere le luci perenni delle tombe del cimitero sottostante. In cima a quel colle, lì dove il viale di Cipressi porta, c’era un tempo la villa Montedomini, in realtà villa della famiglia Ferretti. Villa famosa, si diceva in zona, perché infestata da fantasmi. Non vuoi andare a vedere una casa coi fantasmi quando hai venti anni? Certo che vuoi, e infatti con la comitiva che frequentavo allora, quella con la quale condividevo anche la passione per la musica punk, abbiamo preso a andarci. Lasciavamo la macchina proprio al parcheggio del cimitero, salivamo gli scalini distrutti in mezzo al viale, duecentoventidue, e arrivati in cima accendevamo le torce e entravamo dentro quel che rimaneva della villa, davvero poco e cadente. Vi fosse capitato in quel mentre di passare per la superstrada avreste visto delle luci tremolanti uscire dalle finestre distrutte della villa, oggi la vista è occlusa proprio dal verde dei cipressi lasciati nell’incuria, luci tremolanti alla base della leggenda della villa infestata dai fantasmi. Più spesso che noi, in realtà, le luci tremolanti erano quelli dei tossici di Castelferretti e paesi annessi, che salivano fin lì per farsi in serenità, senza correre rischio che arrivasse la polizia. Ne eravamo coscienti perché in terra c’erano siringhe e carte stagnole, come nell’ABC dell’immaginario di Irvine Welsh. Una mia cara amica di quegli anni, Deborah, laureatasi in architettura a Pescara, ci ha fatto la tesi, quella ristrutturazione di quella villa, arrivando alla conclusione che rimetterla in sesto sarebbe costato una cifra incredibile, tipo quanto potrebbe costare un box doppio in semiperiferia qui a Milano.
Quindi sì, facevo urbex senza sapere di fare urbex, e per anni ho praticato la psicogeografia, scrivendo libri e reportage, senza sapere che fosse psicogeografia. Per dirla con il Piotta che parecchi anni fa duettava con Caparezza, parliamo di diciotto anni fa, “scusa le spalle, sto troppo avanti”.