Finalmente siamo arrivati alla fine, alla fine dell’estate e alla fine dell’estate nei tuoi occhi.

Ripeto, finalmente.

Ammetto che, fino a pochi mesi fa, ignoravo completamente l’esistenza di questa saga. Né serie, né libri, e, a dirla tutta, forse stavo meglio così. Ma la FOMO è una brutta amica, e mi sono ritrovata anche io, mercoledì dopo mercoledì, a guardare questo piccolo disastro travestito da storia d’amore estiva. Perché sì, altro non è che un horror sentimentale.

Eppure, The Summer I Turned Pretty è diventata un fenomeno culturale. Ovunque, sui social, non si parlava d’altro. Influencer, cantanti, brand e sportivi: tutti schierati, tutti a far sapere al mondo se erano Team Conrad o Team Jeremiah. Come se prendere posizione fosse un modo per dire: “ehi, anche io sono parte di questa generazione”.

E la maggior parte delle persone aveva una chiara preferenza: Conrad.

Ma qui non voglio dilungarmi troppo sul fenomeno social in sé, né sulla dinamica amorosa che Jenny Han, l’autrice, ha creato , anche se, detto tra noi, è abbastanza inquietante. Una ragazza contesa da due fratelli con cui è praticamente cresciuta: serve davvero Freud per notare quanto sia problematico tutto ciò?

No, voglio invece soffermarmi su quanto si sia perso il focus. Il cuore della serie doveva essere la crescita, il superamento del trauma, la scoperta di sé. E invece? Tutto è stato ridotto a una guerra tra fandom.

Non si parlava più della trama, dei messaggi, della salute mentale buttata lì in modo superficiale, del lutto (altrettanto bypassato), dei tradimenti, della gelosia, della possessività mascherata da amore, del concetto tossico di romanticismo. No, si parlava solo di Conrad vs Jeremiah.

La verità è che questa serie veicola una visione dell’amore distorta, quasi dannosa. E il finale ne è la dimostrazione più evidente.

Tutti i personaggi finiscono accoppiati, come se essere single fosse una condizione da correggere, un fallimento. Eppure, il vero finale “giusto”, quello più coerente con l’evoluzione della storia, sarebbe stato un finale senza coppie, con ognuno dei protagonisti che sceglie se stesso. Perché stavano finalmente lavorando su quello: stavano guarendo, affrontando il lutto, i traumi, i legami tossici.

Stavano scoprendo la propria strada, la propria identità, persino la propria carriera.

Ma no. Tutto è stato annullato.

Belly lascia Parigi , dove stava trovando una nuova sé, una dimensione finalmente libera dal passato, per tornare a Cousins Beach, il luogo dove tutto è iniziato. E lo fa per tornare con Conrad. Una scelta prevedibile, certo, ma anche profondamente regressiva e tossica.

Perché Conrad non ama davvero Belly. Ama l’idea che ha di lei, il ricordo di un amore adolescenziale deformato dal tempo e dal trauma condiviso. La sua “dedizione” è ossessione: le scrive lettere per mesi, senza risposta, si presenta a Parigi senza essere invitato, non riesce nemmeno a stare nella stessa stanza con lei senza rischiare di travolgerla, da quello che sembra amare ma è tutt’altro. Questo è attaccamento disfunzionale.

E la cosa peggiore è che, per accontentare il pubblico e chiudere il cerchio con il “principe tenebroso”, l’autrice han sacrificato tutto il resto: lo sviluppo personale dei personaggi, il rispetto tra fratelli, la coerenza narrativa.

Jeremiah, l’unico con una vera evoluzione emotiva, viene trattato come un accessorio. Il ragazzo che davvero è stato accanto a Belly, che ha cercato di capirla e sostenerla, viene ridotto a un ostacolo. Una comparsa. Rovinato appositamente per forzare la scelta finale di Belly.

Tutto per regalare agli spettatori quel finale da favola. Ma questa non è una favola, è un messaggio , a mio avviso, pericoloso.

Perché l’amore vero non è fissazione, non è inseguire un ideale del passato, non è ignorare la crescita dell’altro. L’amore vero è presenza, è rispetto, è conoscenza reciproca. Ed è anche saper lasciare andare, sapersi scegliere. Ma nulla di questo viene mostrato.

Belly, Conrad e Jeremiah finiscono tutti per agire in modo profondamente egoista. Pensano solo ai propri sentimenti, ignorando quelli degli altri.

Belly è forse il personaggio che mostra più egocentrismo: non riflette mai davvero sulle conseguenze delle sue scelte, né sull’impatto che ha su chi le sta intorno, rovinando persino il funerale della madre dei due fratelli.

In definitiva, questo finale avrebbe potuto essere un atto di maturità collettiva, una presa di coscienza. Ma si è scelto il fan service, la nostalgia, l’illusione di un amore epico. Peccato che l’epicità non basti, se i protagonisti sono ancora bloccati nelle dinamiche adolescenziali da cui dovevano uscire.

The Summer I Turned Pretty finisce così, come l’estate, con la promessa di un amore eterno che probabilmente svanirà alla prima pioggia d’autunno, perché le fondamenta di un amore duraturo non ce ne sono.

E forse è giusto così. Perché non tutte le estati devono durare per sempre.

Io rimango delusa, nonostante mi aspettassi già questo finale, ma soprattutto rimango perplessa sull’insegnamento che lascia a un pubblico, prevalentemente femminile e prevalentemente giovane, ma questo ce lo dirà solo il tempo.

Io non ero team nessuno, ero team crescita e libertà, sperando di non essere stata la sola.