All’inizio degli anni Novanta, diciamo tra l’inizio e la metà, ho cominciato a scrivere. Ovvio, sapevo già scrivere, perché sono nato nel 1969 e ho quindi frequentato le elementari negli anni Settanta, ma è tra l’inizio e la metà degli anni Novanta che ho cominciato a prendere in considerazione l’idea di scrivere qualcosa che magari potesse un giorno essere pubblicato. Questo è accaduto per varie ragioni, direi piuttosto irrilevanti ai vostri occhi, ma che comunque non mi esimerò dal raccontare. In quegli anni stavo seriamente prendendo in considerazione l’idea che nella vita non sarei poi riuscito a fare un lavoro che prevedesse il mio entrare in un ufficio o comunque un luogo di lavoro tradizionale, come invece avevo credo più per osmosi con il mondo che mi circondava che per un ragionamento tutto mio avevo pensato fino a quel momento. Avendo puntato molto se non tutto sulla musica stavo, ahimé, cominciando a rendermi conto di non avere né sufficiente talento per farne un mestiere, né abbastanza pazienza per condividere quella mia passione con altri che avrebbero comunque messo bocca, i compagni di band coi quali stavo provando a costruire qualcosa. Avevo la necessità fisica, impellente, di trovare una forma di comunicazione, oltre che d’arte, che mi permettesse di mettere in fila i pensieri, non perché ritenessi di avere pensieri talmente importanti da doverli esternare a un eventuale pubblico, ma perché quei pensieri, se mai fossero rimasti lì dove si trovavano, avrebbero fermentato facendomi in qualche modo andare a male.

Non avendo però mai preso in considerazione fino a quel momento l’idea di scrivere con un piglio da scrittore, pur essendo un buono se non un ottimo lettore, e non sapendo esattamente da dove cominciare, mi sono messo a studiare, il tutto mentre facevo ufficialmente altri studi, Storia Moderna, e il tutto mentre stavo anche intraprendendo il tirocinio imposto dalla Caritas per poter poi svolgere l’anno ufficiale da obiettore di coscienza. Così ho cominciato a leggere libri che pensavo mi potessero dare indicazioni precise sulle tecniche di scrittura, a volte andando a intuito, come poi spesso mi è capitato di fare negli anni dovendo scegliere che libri leggere, un po’ facendomi suggerire da chi si muoveva nel campo dell’editoria, intendo chi si muoveva nel campo dell’editoria e era alla mia portata, penso a mio fratello Marco e a Massimo Canalini, editore di Transeuropa, quindi titolare del successo di Jack Frusciante è uscito dal gruppo e altre piccole gemme.

Non ritenendo di poter cominciare con un romanzo, perché pensavo, e in parte penso anche ora, che un romanzo pretenda da parte di chi lo scriva una storia talmente grande da non poter non essere raccontata, e io non avevo una storia del genere in testa, e soprattutto per essermi avvicinato proprio per studio a Raymond Carver, considerato non saprei se a ragione il più grande scrittore del neomiminimalismo, mi ero messo a studiare con particolare attenzione chi scriveva racconti, e non a caso il mio libro d’esordio sarà una raccolta di racconti.

Credo fosse il 1993, nel dire “credo” sto esercitando un trucchetto retorico atto a rendere queste mie parole colloquiali, ovvio che so che era il 1993, siamo nel 2025 e abbiamo tutti a disposizione Google o ChatGPT, e anche questo mi spiegare che sto utilizzando un trucchetto retorico al fine di rendere queste mie parole colloquiali è un trucchetto retorico, stavolta atto a riprendermi il ruolo di scrittore che fa lo scrittore, potrei andare avanti a lungo su questo frangente, quindi riparto da capo.

Credo fosse il 1993 quando uscì un libro che qualcuno, forse proprio Canalini, mi suggerì di leggere. Si intitolava Navi in bottiglia, e a firmarlo era un giornalista de La Stampa, credo, e stavolta credo davvero perché non è un dettaglio così rilevante da spingermi a controllare. Il libro, edito da Mondadori in una collana economica dal formato insolitamente piccolo, raccoglieva centouno racconti molti brevi, trenta righe ciascuno, con una caratteristica comune, l’ultima riga di ogni racconto sovvertiva e ribaltava il senso di quel che era scritto nelle ventinove righe precedenti. Un bell’esercizio di stile, non c’è che dire, trovare centouno storie tanto brevi da essere racchiuse in trenta righe, ma abbastanza interessanti da poter avere al loro interno una specie di colpo di scena, sotto il profilo della trama o semplicemente emotivo.

Dovevo studiare scrittura creativa, diamo alle cose il giusto nome, quindi leggermi un esercizio di stile come quello, negli stessi mesi mi sono sparato anche Lezioni di stile di Raymond Queneau, libro stavolta del 1947, dove lo scrittore francese presentava novantanove versioni della medesima trama esternata in novantanove stili diversi, e Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, che è opera assai più complessa e dove sono le trame a entrare di volta in volta in scena, interrompendo la trama principale, quella che il Lettore, non a caso il libro è in seconda persona, prova a leggere, senza successo, dovevo studiare scrittura creativa, mi ero detto, diamo alle cose il giusto nome, quindi leggermi un esercizio di stile come quello mi sembrava in effetti cosa buona e giusta. A un certo punto, ho ancora il libro ma è infilato non saprei bene dove nella mia libreria, in buona compagnia di qualche migliaio di altri libri, sì, sto flexando, ma è più per insicurezza che per spavalderia, e anche questo è ovviamente un trucchetto retorico talmente bieco da non meritare neanche una didascalia, Dio mio, a un certo punto, ho ancora il libro da qualche parte ma non ricordo dove, lungo le pagine trovo un racconto che si intitola L’uomo con la pioggia dentro. Sono passati trentadue anni, e la mia memoria è quella che è, cioè una sorta di bagnarola che a stento starebbe a galla sul bagnasciuga, non posso pretendere troppo da lei, quindi non pretendete da me che io stia qui a raccontarvi le trenta righe di quel racconto, trenta righe che, visto che nel tempo ho decisamente abbandonato l’idea di diventare un seguace del neominimalismo per sposare una versione espansa e esplosa del massimalismo più postomodernista, non credo serva sottolineare come e perché, diventerebbero decisamente assai di più. Quello che però ricordo perfettamente è che quel racconto è stato senza ombra di dubbio quello che più di ogni altro mi ha colpito, mettendomi a disagio, forse addirittura sconvolgendomi. I libri hanno questo potere, lo so, e anche solo a pensarci oggi provo ancora una suggestione che si colloca esattamente alla bocca dello stomaco. Era la storia di una coppia, ricordo, nella quale l’uomo evidentemente stava scivolando nella depressione, ma questo io non lo capii subito, la vita a volte ti mette in condizione, a volte anche condizioni non volute, di comprendere in ritardo certi panorami che ti ritrovi davanti. Il suo scivolare nella depressione si manifestava in una strana forma di commozione, quasi perenne, che non lo portava alle lacrime, so che parlare di pianto parlando di depressione è tanto banale quanto fuorviante, ma quello era un racconto, mica un trattato di psichiatria, il suo suo scivolare nella depressione si manifestava in una strana forma di commozione, quasi perenne, che non lo portava alle lacrime, almeno non esternamente, quanto piuttosto a un “piovere dentro”. Un’inondazione, di questo parla Romagnoli nel suo bellissimo racconto, frutto dell’empatizzare con tutto quello che succede intorno al protagonista, al punto che l’uomo morirà annegato internamente nelle sue stesse lacrime. Una folgorazione, parole talmente precise, vai a capire se per esperienza personale o per quella forma di intuizione narrativa che solo i bravi narratori credo possono avere, al punto che me le trovo davanti agli occhi, metaforizzo, a distanza di trentadue anni. Non ho più letto niente, credo, di Romagnoli da lì in poi, forse proprio perché infastidito da quel trovarmi di fronte qualcuno di così capace. Mi è successo, in maniera diversa, con Rick Moody, scrittore americano che è in realtà uno dei miei autori preferiti di sempre. Ho cominciato a leggere Rosso americano, che è uno dei suoi romanzi, e ho mollato dopo una decina di pagine, conscio che non sarò mai in grado di scrivere così. Ho letto però tutto il resto, compreso il memoir Il velo nero, che a sua volta parla di depressione, e sulla depressione ho letto tanto, compreso quel capolavoro assoluto di racconto Il canto della neve silenziosa, racconto che da il titolo alla raccolta di Hubert Selby Jr, quello di Ultima fermata Brooklyn e Requiem per un sogno.

Ma non è di depressione che voglio parlare, quanto di empatia, e quindi di dolore. E no, in realtà credo di dover parlare anche di depressione, oltre che di empatia e quindi di dolore. Il fatto è che sono giorni che non riesco a non pensare alla storia di quel ragazzo di quattordici anni, quindici non ancora compiuti e mai più compiuti, di Latina, che si è ucciso alle prime luci dell’alba del giorno nel quale sarebbe dovuto tornare a scuola, per il bullismo subito da anni da parte dei suoi compagni di classe e di parte dei suoi insegnati, così ha detto suo padre. Paolo, che molti chiamavano Paoletta e Nino D’Angelo per i suoi capelli biondi, Paolo al cui funerale, ho letto, si è presentato un solo compagno di classe. Ho due figli che hanno un anno meno di quelli che avrebbe Paolo se fosse ancora vivo, quattordici, e hanno da pochi giorni iniziato il loro percorso scolastico alle superiori. Forse è anche per questo che questa notizia mi ha sconvolto, perché è più facile empatizzare con qualcuno che ha dei pezzi di quel puzzle che chiamiamo vita che coincidono coi nostri. So, per quanto sia possibile sapere da adulti, quando cioè la vita ci ha inspessito il cuore riguardo sentimenti e sensazioni, so da genitore quanto sia complicato essere adolescenti e quanto sia ancor più complicato essere adolescenti in una società come la nostra, votata all’apparenza e anche a una forma tossica di costante ricerca dell’approvazione, la famosa necessità di Like e quindi di scariche di dopamina che i Like comportano. Mi ha stravolto vedere Adolescence, anche se in quel caso, come faccio sempre, ho provato a concentrarmi sulle scelte stilistiche di sceneggiatori e regista, come il famoso piano sequenza unico per ogni puntata, pur di tenere l’emotività a bada, avevo fatto lo stesso vedendo La stanza del figlio di Nanni Moretti, film per altro girato proprio nella mia città natale e uscito quando mia moglie era incinta della nostra primogenita, Lucia, figuratevi andare al cinema e vedere una trama del genere sviluppata nei posti nei quali sei cresciuto, lì a salvarmi non tanto lo stile, quanto piuttosto il vedere gente che conoscevo fare le comparse, un mio parente alla lontana, tale Anacleto detto Faina, apparire nel momento in cui Laura Morante, la moglie di Moretti nel film, percepisce che loro figlio è morto in mare, un caro amico di mio fratello, Fabrizio detto Bibo, lì a saldare con lo stagno la bara dentro la quale il figlio del titolo si trovava esanime, ma stavolta è diverso, è davvero doloroso. Forse è anche questo nostro periodo malato, da una parte la presenza nel nostro quotidiano di così tante scene orrorifiche, la guerra divenuta parte del menu dei nostri pranzi e cene, dall’altra una polarizzazione talmente esacerbata da spingerci a un chirurgico esercizio di presa di distanza da qualsiasi situazione che non ci veda coinvolti, pena il non riuscire letteralmente a vivere in serenità. Di fatto a pensare alla solitudine e alla sofferenza di questo ragazzino, bullizzato, insultato, emarginato, picchiato, abbandonato da chi avrebbe in qualche modo dovuto tutelarlo al punto da aver ritenuto che la morte potesse comunque essere la soluzione a tutto quel dolore, mi devasta. Mi devasta al punto che mi sento esattamente come il protagonista di quel racconto, racconto che ho evocato per una forma di salvaguardia che ho imparato a esercitare negli anni, usando le parole come per narcotizzarmi e anestetizzami quando capisco che essere empatici a volte è davvero troppo difficile.

Dovremmo tutti interrogarci su quello che stiamo facendo diventare il nostro vivere quotidiano, sulla leggerezza con la quale affrontiamo certi messaggi che i più giovani ci indirizzano e anche su come a furia di alleggerirle del loro reale peso, abbiamo reso le parole vuote quando si tratta di curare, ma pesantissime quando si tratta di usarle come pietre lapidatorie.