Dicono che le cicatrici ci dicano molto di chi le indossa. Un po’ come le rughe, e qui andrebbe ovviamente citata la famosa frase di Anna Magnani riguardo il suo essersele sudate una alla volta. Io non so bene se tutto ciò risponda al vero, anche se resto fermamente dell’idea che entrambe, cicatrici e rughe, siano in effetti parte integrante del nostro essere nel tempo, le cicatrici più facili da datare rispetto alle rughe, è chiaro, ma comunque qualcosa che ci differenzia rispetto quel che eravamo prima, segno del nostro attraversare la vita, a volte assorbendo colpi in grado di ferirci.
Nel mio caso, provando a guardarmi, i segni la vita me li ha inferti sin da che non ero ancora conscio di esserci, nel tempo. Perché ho due cicatrici, simmetriche, nell’addome, poco sopra il pube, convergenti dall’alto verso il basso, diagonali. Sono il risultato di due interventi fatti quando avevo appena cinque mesi, per curare delle ernie addominali dovute allo sforzo fatto durante il parto. Un parto tragico, quello che mi ha visto nascere, quasi cinquantasei anni fa, visto che mentre io venivo alla luce, si dice così, come se il vivere sia una faccenda da svolgere sotto dei riflettori, in assenza di buio, mio fratello gemello, gemello eterozigote, quindi di una sacca diversa dalla mia, moriva, strozzato dal cordone ombelicale. Una faccenda tragica dovuta in parte al fatto che cinquantasei anni fa, sicuramente in Italia, ma forse proprio nel mondo, non c’era l’ecografia prenatale, e nessuno lì in sala parto alla Clinica Santa Maria, a due passi dove ora vivono i miei genitori, in Ancona, aveva idea che il mio fratello gemello, poi battezzato sul luogo, ormai morto, da una suora che assisteva al tutto Francesco, il mio nome, Michele, sarebbe stato un ripiegamento, mi hanno poi spiegato, nessuno, dicevo, aveva idea che il mio fratello gemello Francesco avesse il cordone ombelicale intorno al collo, a mo di cappio. Anche quando trentadue anni dopo è nata la nostra prima figlia, Lucia, io assistevo al parto, c’era un cordone ombelicale intorno al collo, ma nel mentre c’era anche stato progresso, quindi appena nata è stato tagliato prontamente, senza che Lucia corresse rischi, unico risultato io, che dovevo tagliare il cordone ombelicale, come poi farò alla nascita del nostro secondo figlio, Tommaso, non ho potuto farlo. Non l’ho fatto, per ovvi motivi, anche quando dieci anni dopo dalla nascita della nostra prima figlia, Lucia, sono nati i gemelli Francesco e Chiara, una gravidanza cercata, quella del terzo figlio, che però si è presentata gemellare, anche lì sacche eterozigote, ovviamente, un maschio e una femmina non possono che essere gemelli di quel genere, io non ho potuto effettuare il taglio perché loro son nati con parto cesareo, e io non ho assistito.
Le prime cicatrici, quindi, sono legate alla mia nascita, tragica perché nel momento in cui sono nato ho perso il mio gemello, con tutto quello che ciò ha generato, dal lutto di mia madre e mio padre, il primo visibile, il secondo assai meno, e quell’assenza di chi, lo vedo con Francesco e Chiara, ha davvero un legame diverso da tutti gli altri. Due cicatrici addominali, evidenti, che portano ancora oggi, ripeto ho quasi cinquantasei anni, mia madre a dirmi di non fare sforzi, perché ho fatto le ernie.
Non ho solo queste due cicatrici, però. Ne ho altre, di cui invece ho memoria diretta, nel senso che ricordo perfettamente quando e come me le sono fatte. Sono tutte legate al gioco del calcio, e forse attestano quel che un po’ tutti sappiamo, cioè che il calcio non è esattamente un gioco.
Ne ho due sul braccio destro. Una, più grande, sei punti, sul gomito, quasi nascosta nelle pieghe della pelle, l’altra, di poco più di un centimetro, simile a una ustione, in corrispondenza dei sei punti, ma nell’incavo del gomito. È successo che da ragazzino andavo spesso a giocare a calcio, in realtà una via di mezzo tra calcio e quello che poi avremmo tutti conosciuto come calcetto, parlo dei primi anni Ottanta, al campetto in cemento grezzo davanti al teatrino di San Francesco alle Scale, la parrocchia che frequentava la mia famiglia. Una colata di cemento grezzo, quindi pieno di grumi e irregolarità, sul quale erano state fissate, quelle sì bene, perché ogni tanto si sapeva di qualche ragazzo morto per essere stato schiacciato dalla traversa di una porta in un campetto, non ho mai capito se fossero notizie reali o dette per spaventarci e indurci a fare attenzione. Giocavamo lì il sabato pomeriggio, praticamente tutto il pomeriggio, e quando finiva l’estate ci giocavamo tutti i giorni, sempre di pomeriggio, andando al mare la mattina. Quando si è molto giovani si hanno energie di cui da adulti si perde tutta la memoria. Un sabato pomeriggio, mentre si giocava tra noi, eravamo sempre i soliti, e le squadre erano anche sempre le solite, con quelli forti che si dividevano gli altri, capandoli, così si diceva, per formare squadre che fossero equilibrate, quando a un certo punto un ragazzo piuttosto strano che in realtà non giocava quasi mai, e che quel giorno aveva trovato spazio solo per l’assenza di qualcun altro, ha deciso di falciarmi in maniera violentissima, facendomi letteralmente volare per aria e poi atterrare sul gomito. Un dolore lancinante, con grande perdita di sangue e un buco dal quale tutti dicevano si vedesse chiaramente anche l’osso, non ho mai capito se fosse vero. Il ragazzo strano, ovviamente, non ha chiesto scusa, era strano, appunto, si è limitato a starsene lì a guardarmi, mentre mi alzavo maledicendolo, pronto poi a andare a casa e di lì all’ospedale, all’epoca c’era ancora l’Umberto I in centro, non troppo lontano da casa mia, dove mi avrebbero applicato i sei punti di cui sopra. Farsi mettere i punti, da sveglio mi hanno messo solo quelli, non è cosa piacevole, perché davvero c’è un medico che ti cuce usando un ago, anche bello grosso, uncinato. Una cosa dolorosa e che poi lascia un segno indelebile, ecco perché poi uno se ne ricorda anche se sta in un punto, nel mio caso il gomito, che per ovvi motivi non è mai sotto il proprio sguardo. So che sono lì, e che me li ha fatti Barbone, questo il suo cognome, che poi era il solo modo in cui lo chiamavamo, le rare volte che ci relazionavamo con lui, era strano e noi tendevamo a tenerlo a distanza, giovani e incapaci di gesti troppo maturi, o forse consapevoli che un giorno sarebbe potuto entrare a gamba tesa su di noi, portando a metterci sei punti sul gomito, un nome che ai tempi non evocava nulla, perché forse c’era un filo meno cinismo e nessuno, mi sembrava, tendesse a identificare gli altri con la propria condizione sociale, o almeno nessuno di quelli che frequentavamo noi, lì in parrocchia. Tempo fa l’ho anche rivisto, sempre uguale, al supermercato sotto casa di mia suocera, che è poi dove stiamo quando scendiamo in Ancona da Milano. Aveva la faccia un po’ più gonfia di come me lo ricordassi, ma era chiaramente lui. Il gonfiore sembrava quello da psicofarmaci, e il fatto che al suo fianco ci fosse una donna adulta, palesemente una badante, che lo accompagnava come in genere si vede fare alle badanti con le persone molto anziane, mi ha fatto capire che la sua stranezza era decisamente peggiorata, e che forse non era mai stata semplice stranezza. Tornando ai punti, però, qualche giorno dopo quell’incidente, sono dovuto tornare all’ospedale con mio padre, per farmeli togliere. So che oggi è tutto più semplice, spesso non si mettono punti, ma qualcosa di simile a graffette, o addirittura si usano cerotti atti proprio a sostituirli, poi ne parlerò, ai tempi invece si doveva tornare al pronto soccorso per farseli togliere, fortunatamente saltando la trafila della sala d’attesa, a meno che non ci fossero troppe urgenze. Succede che entriamo in ambulatorio, il giovane dottore comincia a parlarmi mentre mi taglia la fascia che copre il gomito, come per distrarmi in vista di qualcosa di altrettanto doloroso. Mi parla ma io lo interrompo, dicendogli che mi sta facendo male, lì a tagliarmi la fascia fatta con una garza. Il dottore, giovane, mi guarda con la faccia di chi la sa lunga, dicendomi che non mi ha ancora fatto nulla, e che comunque non sarà affatto doloroso come quando mi hanno messo i punti, giusto un po’ fastidioso. Io dico che sento dolore, e una macchia di sangue che appare sulla parte dell’incavo del gomito, sulla fascia, spiega anche perché, il giovane dottore non si è infatti limitato a tagliarmi la fascia, ma nel farlo mi ha anche tagliato un pezzo di carne, ferendomi. Accortosi del danno, era altra epoca e a nessuno sarebbe mai venuto in mente di fare causa all’ospedale, ahinoi, il giovane dottore mi ha rimesso il lembo di carne a posto, ma rovesciando la pelle, col risultato che fa oggi apparire quella cicatrice simile a una ustione, ci ha poi messo su un grosso cerotto e ha iniziato a togliermi i punti, e tanti saluti.
L’altra cicatrice, visibile, ce l’ho sul collo del piede, anch’essa frutto di un incidente avvenuto durante una partita di calcetto. O meglio, avvenuto in seguito a un incidente avuto durante una partita di calcetto, anche stavolta per goffaggine di chi mi ha soccorso. È dicembre 2011, per la precisione il 29. Ricordo bene tutto per motivi miei personali, tre mesi e poco più prima erano nati Francesco e Chiara, noi eravamo scesi in Ancona per le vacanze di Natale, battezzandoli il 26. Dopo una gravidanza gemellare, a oltre quarant’anni, e passati i primi tre mesi non semplicissimi, dal punto di vista della gestione, considerando anche che nel mentre Lucia stava facendo la quinta elementare e Tommaso aveva appena iniziato la prima, mia moglie aveva esternato in maniera molto chiara l’intenzione di rilassarsi un po’, complice lo stare altrove e in qualche modo non dover gestire anche la casa. Solo che io sono andato a giocare a calcetto con gli amici di sempre, quelli di quando ero giovane, e a un minuto esatto dalla fine di quella che era stata una partitella tranquilla, finalizzata più che altro a andare poi a farsi una bevuta, avevo sentito come tutti un crack piuttosto chiaro e forte. Il crack dovuto alla rottura di un mio tendine, a sua volta dovuto al fatto che Paolo, uno dei miei più cari amici, a sua volta marito di Silvia, la migliore amica di mia moglie, alto quasi un metro e novanta, mi è caduto addosso a peso morto, di qui il crack. Tutti lo abbiamo sentito, a livello di rumore, io ho sentito anche la fitta di dolore. Paolo, che sapeva delle intenzioni di Marina, mia moglie, è entrato nel panico, conscio di avere fatto un danno. Quindi ha preso una bomboletta di ghiaccio spray, e me l’ha appoggiata sul collo del piede, svuotandocela. Io, che sono pragmatico e freddo, ho preso le mie cose, e prima che il dolore e il gonfiore mi impedissero di muovermi, sono corso in farmacia, a prendere pomate e garze, e poi sono andato a cara, dicendo che non avevo voglia di fare tardi con gli amici. Che fossi stanco anche io era in effetti credibile, proprio per la faccenda dei gemelli. Il giorno dopo, però, non sono riuscito a alzarmi, e ho raccontato l’incidente, lungi da me star qui ora a raccontarvi la reazione di mia moglie. Il peggio doveva ancora arrivare, perché un paio di giorni dopo, credo l’ultimo dell’anno, mi è spuntata sul collo del piede, dove Paolo aveva svuotato la bomboletta di ghiaccio spray, una bolla che, nel corso delle ore, è diventata gigantesca. Qualcosa come una mela appiccicata sul collo del piede. Siccome sono pragmatico e freddo, ho preso Facebook, allora andava per la maggiore, ho escluso dalla possibilità di vedere il post mia moglie, ho pubblicato una foto della bolla sul collo del mio piede chiedendo ai miei “amici” social se ci fosse un dottore in grado di dirmi cosa fare. Ha risposto Nadia, nostra amica carissima, mia compagna di scuola alle medie, dottoressa presso il pronto soccorso dell’ospedale dei bambini di Ancona, dove Lucia e Tommaso sono nati, i gemelli sono nati a Milano, e mi ha detto di andare subito da lei in pronto soccorso. Ho quindi chiamato mio padre, che mi è venuto a prendere in auto, e lì sono andato, per scoprire che avevo non solo un tendine lesionato, ma una ustione tra il terzo e il secondo grado dovuta alla vicinanza con cui il ghiaccio spray ha colpito la pelle. La distanza ottimale è circa mezzo metro, a me Paolo l’aveva spruzzato da pochi centimetri. Io, cazzone, gioco sempre, giocavo sempre dovrei dire, coi calzettoni abbassati, come i fenomeni brasiliano e Platini di quando io ero piccolo. Ci fosse stato un calzettone tra lo spray e la mia pelle, mi ha detto Nadia, si sarebbe fuso alla mia carne. Non una bella prospettiva. Risultato, Nadia mi ha dovuto scarnificare la parte ferita, e poi ci ha applicato su, dopo diverse sedute, un patch di pelle sintetica, che poi la mia dottoressa a Milano, perché finite le vacanze siamo tornati a Milano e, giuro, io ho guidato la macchina per i quattrocento e passa chilometri che ci separano, Paolo in Ancona e il mio amico Gianni a Milano, a portare su e giù per le scale le tante valige, un patch di pelle sintetica che poi la mia dottoressa a Milano ha dovuto tagliare, o meglio, di cui ha dovuto tagliare i bordi che avanzavano rispetto alla parte ferita, anche lì, non un bello spettacolo. Oggi ho una macchina scusa sul collo del piede, visibilissima, ricordo di quella partita. O meglio, ricordo di quella che è stata la mia ultima partita giocata, mi limito giusto a fare qualche partita alla tedesca al mare, d’estate, a Marcelli, ma lì scontri di gioco non sono previsti, da quel momento mi è stato impedito di giocare a calcio, anche quando, un paio di volte, si è prospettata l’idea di prendere parte a una delle partite che la Nazionale Cantanti gioca contro squadre messe su per l’occasione, ho anche la maglia col mio nome, in un cassetto dell’armadio, ma è il cassetto dove i sogni sono destinati a rimanere tali.
In realtà ho anche un’altra cicatrice, meno evidente, forse, ma con la quale faccio i conti tutti i giorni, anche mentre sto scrivendo queste parole. Perché il giorno di Natale del 2020, evidentemente il mio karma ha un conto in sospeso con le festività, mi sono sgarrato un dito dentro la porta della mia camera da letto. Era il primo Natale che passavamo a Milano, dopo aver giurato che non ce ne avremmo mai passato uno, ma c’era un lock down che prevedeva di non lasciare la propria abitazione di residenza, e non ce l’eravamo sentita di far finta di niente e andare comunque in Ancona. Ne avremmo passato un altro qui a Milano nel 2023, per un’altra faccenda sanitaria, mia suocera si era operata al cuore neanche un mese prima e era a casa in convalescenza, ma lì eravamo coscienti di quel che sarebbe successo, appunto. Quel Natale 2020 invece ci era piovuto addosso come una tegola, a noi e a buona parte degli italiani, anche perché dopo il primo lock down in molti se non tutti avevamo sperato fosse una faccenda chiusa. Comunque eravamo a Milano, il giorno di Natale, e mia moglie e mia suocera aprono un po’ tutte le finestre di casa, per far cambiare aria. Tutte in contemporanea. Abitiamo al settimo piano di un palazzo affacciato da un lato su una piazza, dal lato opposto verso una parte di città che poi diventa altro, le montagne ben visibili in lontananza. Quando dico che c’è corrente intendo qualcosa paragonabile ai venti che negli Stati Uniti hanno un nome, quasi sempre di donna, e che sono capaci di sollevare auto e anche case. Quel vento, se apri tutte le finestre in contemporanea e lasci anche le porte aperte, fa sì che le porte poi vadano a chiudersi violentemente, a volte anche facendo crepe sulle pareti. Per evitare che ciò accada decido di provare a fermare la porta di camera mia, ma inavvertitamente il mio dito resta incastrato dentro la porta. Pensate a un dolore lancinante. Ecco, quello. Apro la porta, con la mano sinistra, perché il dito rimasto incastrato, attenzione, è l’indice della mano destra, e mi accorgo che sto letteralmente pisciando sangue da lì. Gocce grandi come macchie di Roschach cadono sul greys porcellanato dell’ingresso. Capisco subito che è grave. Il dito è aperto letteralmente a metà, come un pistacchio, solo che quello che si vede non è il frutto da mangiare, ma la falangetta del mio indice destro. Corro in bagno, prendo un asciugamano e mi ci avvolgo la mano, poi corro in camera e mi vesto. Intorno a me il resto della famiglia, spaventato. Qualcuno, a ragione, ha anche qualche senso di colpa, che però presto lascerà spazio a una plastica autoassoluzione. Mi vesto, infilo male la giacca a vento, ho la mano coperta da un asciugamano piccolo, da bidet, e corro verso la macchina. Mentre scendo con l’ascensore, ci vogliono trentotto secondi per fare i sette piani in ascensore, non chiedetemi perché ma lo so, cerco su Google quale farmacia è aperta di turno, è Natale e siamo in lock down. È aperta quella vicino alla scuola dei miei figli. Corro lì, tanto in giro non c’è letteralmente nessuno. Nel senso che da casa mia alla farmacia, due chilometri precisi, non incrocio neanche una macchina. Entro, la mascherina in bocca, e chiedo quei piccoli cerotti che si usano al posto dei punti. Non fossimo sotto Covid sarei andato all’ospedale, perché è chiaro che servano punti, ma non è proprio il caso, quindi decido di fare da me, e compro questi cerottini, delle striscioline piccole ma tenaci di nome Steri-Strip, quindi torno a casa. Chiedo a mia suocera di darmi una mano, lei di solito è fredda nel fare queste cose, ha tolto parte dei denti dondolanti ai miei figli, usando un filo legato a una porta, alla vecchia maniera, ma stavolta non riesce, si agita e si imbambola. Sto continuando a sanguinare, e tutti sappiamo che per scrivere, che è il mio lavoro, mi servono le mani, e quello è l’indice della mano destra. La mando di la e faccio da solo. Pulisco la ferita, sacramentando per il dolore, la asciugo con della carta igienica e poi ci metto questi cerottini. Poi, per isolare il tutto, ci metto sopra poca garza, un cerotto grande e infilo il tutto dentro un pollice di un guanto di quelli che si usano da che c’è il Covid quando si va in giro, e lo uso a mo di cappuccio. Risultato, ora ho una lunga cicatrice che segna la metà precisa del mio indice, che da quel momento è diventato insensibile. Io ho imparato a scrivere, sempre velocissimo come faccio in genere, senza usare l’indice. Una storia buona come metafora, perché parla di resilienza, di capacità di risolvere i problemi inattesi, di sfiga.
Non mi sembra di avere altre cicatrici. Di rughe ne ho tante, ma non so come e quando mi sono spuntate, sono più visibili e scenografiche, ma meno narrative, come tutto ciò che non pretende un gesto violento per venire alla luce, optando piuttosto per quel day by day che non fa alcun tipo di rumore.
Chi invece aveva cicatrici e non aveva assolutamente difficoltà a metterle in mostra, vecchio spirito punk e anarchico mai domito, era Kathy Acker, scrittrice, musicista e performer che ha segnato come pochi altri la controcultura americana e più in generale occidentale nella seconda metà del Novecento. Col suo stile postmodernista fatto di citazioni che sfociavano bellamente nel plagio, la sua carnalizzazione della scrittura, il suo giocare coi generi e con l’idea di cover applicata alla letteratura, Kathy Acker ha in qualche modo aperto la strada a molti autori cyberpunk e avant-pop, facendo del suo stesso corpo, martoriato dal tumore e con le cicatrici delle due mastectomie subite ben in vista, un’opera d’arte. Mica per niente sua ammiratrice è quella Shelley Jackson, da noi nota per aver pubblicato la raccolta di racconti La melancolia del corpo e recentemente il romanzo Riddance, che al corpo ha dedicato molto del suo ingegno e delle sue opere. Su tutte come non citare quel Patchwork Girl evidentemente ispirato al Frankstein di Mary Shelley, sorta di metaopera iterattiva che ha ispirato e neanche poco anche la mia Anatomia Femminile, il tutte le sue esternazioni? E come non citare, parlando di cicatrici, l’opera deperibile Skin, un racconto di oltre duemila parole che ha preso, letteralmente, corpo non sulle pagine di un libro ma sulla pelle di duemila e passa volontari, ognuno a farsi tatuare una singola parola del racconto, e unici beneficiari della lettura del racconto dall’inizio alla fine. Un’opera deperibile per gli ovvi motivi legati alla pelle dei volontari, la morte di ognuno di loro priverà il racconto di una parola, così come, magari, la scelta di cancellare un tatuaggio, fatto che ha reso Skin a suo modo una vera e propria performance artistica collettiva. Cicatrici, seppur vergate dalla mano di tatuatori sparsi per il mondo, segni indelebili, o forse delebili a loro modo, corpi in cambiamento.