Sono nato alla fine degli anni Sessanta in una città di provincia, Ancona. Questi due aspetti sono fortemente legati a quel che vado a raccontarvi, pur guardando il mio racconto all’oggi.

Il mio primo giorno di scuola, il primo in assoluto, non me lo ricordo. Pur parlando spesso io del passato, e del mio passato, fatto che potrebbe essere scambiato per megalomania ma che è in realtà un espediente narrativo per raccontare altro, quindi non necessitante di essere fedele alla realtà dei fatti, ho una scarsa memoria, e di conseguenza una scarsa memoria del mio passato. Ho giusto una immagine del mio secondo primo giorno di scuola, cioè del primo giorno di scuola di quando frequentavo la seconda elementare, oggi scuola primaria di primo grado. Ce l’ho e ce l’ho avuta come molti miei concittadini a lungo perché quel giorno di fronte alla scuola che frequentavo, le Faiani, in via Oberdan, c’era un fotografo del Corriere Adriatico, il quotidiano cittadino, e quel fotografo decise di immortalare quel primo giorno di scuola facendo una foto di due bambini in primo piano mentre uscivano festanti da scuola, il festanti immagino fosse dovuto proprio all’uscire invece che all’entrare. Uno di quei due bambini, non credo di dire nulla di così sorprendente, a questo punto, ero io, l’altro Roberto, mio amico fraterno che aveva anche la peculiarità di abitare nell’appartamento che si trovava un piano sotto al mio, lì in centro in Ancona. Una foto che fece scalpore, nelle nostre famiglie, immagino inimmaginabile ai tempi presumere che io poi sui giornali, Corriere Adriatico compreso, ci avrei scritto e ci sarei finito per quello che è il mio lavoro di critico musicale e scrittore, e fin qui nulla di strano. Quel che però è buffo, credo, è il fatto che quella foto, in bianco e nero come ai tempi usava sui quotidiani, parliamo della metà degli anni Settanta, i quotidiani erano solo di carta, internet non credo esistesse neanche nella fantasia più periferica dei testoni californiani o degli scrittori cyberpunk, ecco, il fatto buffo è che quella foto sarebbe poi stata usata per anni e anni a ogni primi giorno di scuola, come se quei due bambini, io e Roberto, rispettivamente al primo giorno di seconda e prima elementare, fossero rimasti impigliati nel tempo, in una sorta di giorno della marmotta. Volessi giocare coi paradossi, e a me piace giocare coi paradossi, potrei dire che quella foto è uscita di scena solo recentemente, ma forse esagererei. Nei fatti almeno per una decina d’anni mi sono ritrovato a simboleggiare il primo giorno di scuola nel Corriere Adriatico.

Dico questo perché oggi, in molte città italiane, Milano compresa, o almeno in una porzione di Milano, è il primo giorno di scuola. Ai tempi si cominciava tutti al primo di ottobre, sia che si fosse a Lampedusa sia che si fosse a Merano, oggi vige una certa libertà d’azione da parte dei dirigenti scolastici, quelli che ai nostri tempi si chiamavano direttori, per le elementari, e presidi dalle medie in su. Anche qui nella porzione di Milano nella quale abito ci sono scuole che hanno iniziato ieri, altre oggi e altre, ancora, che per far ambientare i ragazzi hanno iniziato addirittura ai primi di settembre.

Diamo però per assodato che le scuole, come prevede un fantomatico e abbastanza posticcio calendario scolastico nazionale, riprendano oggi, così che io possa dire che sono partito con questo ricordo, in realtà non il ricordo del mio primo giorno di scuola ma di come il mio secondo primo giorno di scuola sia finito per diventare un meme quando i meme non esistevano, per parlare del primo giorno di scuola. Non ho ricordi del mio primo giorno di scuola alle elementari, dicevo, e non ho che un vaghissimo ricordo del mio primo giorno di scuola alle medie. Ero passato dalle Faiani, in via Oberdan, alle Leopardi, che per intendersi erano a circa centocinquanta metri da casa mia, laddove per casa mia intendevo l’appartamento nel quale vivevo con la mia famiglia, quello al piano di sopra di quello dove viveva Roberto con la sua famiglia, in via Vittorio Veneto. Quella, ho raccontato forse anche troppe volte questa storia, non era casa mia, casa nostra. Era la casa del prefetto di Macerata, che viveva ovviamente in quegli anni a Macerata, e che essendo momentaneamente sfitta il prefetto di Macerata aveva messo a disposizione del Comune di Ancona per quelle famiglie che erano rimaste sprovviste di casa in seguito al tremendo terremoto che aveva colpito il capoluogo marchigiano nel gennaio del 1972, noi tra questi. Noi abitavamo in altra parte della città, il centro storico, per la precisione in un appartamento all’ultimo piano del palazzo che si trova in cima alla scalinata di San Francesco alle Scale. Una zona oggi immagino cool, il centro storico, ai tempi popolari, ci vivevamo noi che eravamo una famiglia piccolo borghese, mio padre impiegato nell’azienda tranviaria, mia madre casalinga. Di colpo, per questo ho più volte raccontato questa storia, ci siamo trovati a vivere in un quartiere decisamente più cool, il centro e basta, senza storico, in un palazzo nel quale vivevano dirigenti del Comune, della Regione e insegnanti universitari. E noi. La scuola media, oggi secondarie di primo grado, credo si dica così, nonostante io abbia quattro figli queste nuove diciture mi restano davvero indigeste, la scuola media che mi trovai a frequentare era una strana scuola media, perché aveva come bacino d’utenza una zona della città decisamente su, dove però trovava spazio anche una piccola porzione di utenza, direbbero oggi, proveniente dalle case popolari, creando quindi una stranissima fauna. C’erano figli di grandi professionisti e gente che aveva i genitori in galera, per intendersi, a volte anche gente che in galera ci sarebbe finita di lì a pochissimo. Anche in classe mia, la 1° G, la faccenda era così. Eravamo una ventina, credo, e tra questi eravamo molti preadolescenti, la faccia tipica di chi ancora non sa neanche cosa sia l’adolescenza, con almeno cinque o sei elementi che erano praticamente veri e propri adulti, gente che conosceva la vita, il sesso e tutto quel che la vita e il sesso implicano. Io di quel primo giorno, ripeto, ero tra i bambini lì presenti, ricordo che mi misero di banco con un ragazzo piuttosto più alto di me, tale Mirco Bugari, che di lì in poi, per la sua pettinatura coi capelli vagamente a caschetto, ai tempi si diceva “da paggetto”, tutti chiamammo per tutte le medie Cipolla, e che tra noi si parlò esclusivamente di cartoni animati, roba tipo “Ma tu lo vedi Jeeg Robot d’Acciaio?”, “Sì, ma preferisco Goldrake”. Questo per dare il senso di quel che dicevo. Tempo dopo, neanche troppo, ricordo che una nostra compagna di classe prese l’astuccio del mio amico Luca, l’unico che continuai a frequentare una volta finito quel ciclo scolastico e una volta che tornai a vivere nel quartiere dal quale il terremoto mi aveva strappato, e se lo infilò dentro la minigonna di jeans che indossava, invitandolo a infilare lì dentro le mani per andare a riprenderlo. Davvero una strana classe, la nostra. Di tutti loro, oggi, frequento solo Nadia, oggi pediatra in un paese delle provincia di Ancona dopo anni e anni passati al Pronto Soccorso dell’Ospedale dei Bambini, il Salesi, anche se a volte mi capita di vedere alcuni dei miei compagni di classe, nelle mie sortite anconetane. La tipa dell’astuccio, per dire, l’ho rivista con le figlie al Duomo, anni fa, sempre riconoscibilissima nell’aspetto fisico, un po’ meno negli atteggiamenti, appunto.

Il mio primo giorno di scuola alle superiori, oggi secondarie di secondo grado, invece, me lo ricordo stranamente bene. E me lo ricordo perché fu il secondo giorno di scuola. Mi spiego. Erano altri tempi, non credo di dire nulla di strano, e c’era un approccio alla vita dei figli diciamo un filo diverso da quello che noi, noi divenuti genitori tendenzialmente in età più mature di quanto non lo siano diventati i nostri genitori, e praticamente tutti a lavorare, senza più nessuno che se ne stia a casa, tendiamo a praticare. Prendete queste parole per quello che sono, senza giudizi o paragoni.

Io mi ero iscritto a Ragioneria, per la precisione alla nuova tipologia di Ragioneria che si chiamava Informatica. Eravamo nella metà degli anni Ottanta, poco prima, e l’informatica era il futuro, si diceva. Quando dico “mi ero iscritto”, ovviamente, metto in pratica un artificio narrativo, perché nessuno si iscrive alle scuole superiori da solo, a meno che non sia un adulto che decide di frequentare le scuole serali, sono sempre i genitori a iscrivere i propri figli, oggi online con tutta una serie di peripezie che per bontà d’animo evito di raccontare, specie a chi figli non ne ha o ne ha ma ancora sono piccoli e non sa che serate davanti al computer munito di Spid e santa pazienza lo aspetta. Nel mio caso, come in quello credo di quasi tutti i componenti della mia generazione, ai tempi noi giovani eravamo tantissimi, non come oggi, e noi giovani eravamo una porzione rilevante della popolazione italiana, nel mio caso, quindi, come in quello credo di quasi tutti i componenti della mia generazione, dire “mi sono iscritto” è però un artificio narrativo di purissima fantasia, come se io stessi parlando di draghi e fatucchiere, per intendersi. L’iscrizione alle scuole funzionava così. Dovevi andare alle elementari? Andavi in quelle vicino casa. Idem per le medie. C’era giusto qualcuno che provava a cambiare, ricordo che alle Tommaseo, scuole medie vicine proprio a San Francesco alle Scale, c’era qualche sezione dove si studiava uno strumento musicale, quindi lì magari ci arrivavano anche da altri quartieri, ma per il resto era la scuola più vicina a casa, senza se e senza ma. Quindi avevi per compagni i tuoi vicini di quartiere, per altro. Oggi non funziona affatto così. Uno va agli open day, sceglie la scuola che ha un piano formativo che gli piace di più, o che in alcuni casi è più alla moda, le scuole come i prodotti vengono “vendute” negli open day, quindi chi è più bravo a vendere e ha il passaparola migliore vince, e poi si prega Iddio che la scelta combaci con quanto il provveditorato agli studi stabilirà. Provveditorato agli studi che procede con tutta una serie di regole, spesso che devono prima rientrare nelle regole delle scuole, quindi vicinanza al plesso scolastico dell’alunno, presenza nel plesso scolastico di un fratello o sorella più grande, culo. Nel caso delle superiori, ci arrivo, c’è anche una porzione percentuale degli alunni che devono poter venire da fuori, da comuni che non hanno istituti superiori, quindi puoi essere preso perché abiti vicino alla scuola, o perché abiti molto lontano, se hai preso un determinato voto, se, soprattutto, la scuola di provenienza, le medie, ha detto che quella è la scuola che fa per te, il famoso “consiglio orientativo”. Consiglio orientativo che, in quanto tale, cioè consiglio, dovrebbe essere qualcosa che uno può o meno decidere di prendere in considerazione, ma evidentemente così non è, e quindi vai di TAR se qualcuno non viene preso per quel motivo, e via discorrendo.

Tornando però ai miei tempi, parliamo di più di quaranta anni fa, allora funzionava così, i tuoi genitori decidevano che scuola avresti fatto e ti iscrivevano. Non ricordo se informandoti della scelta prima o dopo l’iscrizione, comunque non tenendo affatto o quasi conto di eventuali tue rimostranze. Rimostranze che si sarebbero comunque basate non si sa bene su cosa, non c’erano i social, non c’era internet, che se ne sapeva delle superiori. Le superiori, del resto, erano molte meno di oggi, come tipologie. C’erano i licei, per quelli che volevano o potevano poi ambire all’università, il Classico per quelli che puntavano alle facoltà umanistiche, ma anche a Medicina, Giurisprudenza e altro, il classico era la scuola più difficile e temuta, si diceva, lo Scientifico per chi era bravo in matematica e avrebbe poi proseguito con quel tipo di facoltà, tipo Ingegneria o Economia e Commercio. Il Linguistico per chi voleva imparare le lingue, ma per dire, in Ancona neanche c’era. Poi c’erano gli istituti tecnici, per chi voleva andare a lavorare ma con lavori di un certo profilo. Quindi Ragioneria, Geometri, e qui è facile capire di che lavori si trattasse, e l’ITIS, per chi voleva andare genericamente a lavorare “in azienda”. Ragioneria era una scuola mista, Geometri e l’ITIS quasi esclusivamente scuole maschili. Erano gli anni in cui si diceva che per ogni uomo ci fossero sette donne, roba che neanche nel Corano, ma in realtà c’erano in giro molti più ragazzi che ragazzi, mi sembra di ricordare. C’era l’Istituto d’arte per chi era bravo a disegnare e, noi eravamo in una città di mare, il Nautico per chi voleva lavorare al cantiere o sulle navi. Poi c’era Magistrali, per chi voleva fare la maestra, quattro anni e via. Infine c’erano le scuole Professionali, che erano a due passi da casa mia, una specie di Manhattan de 1997 Fuga da New York fatta di bullismo e semidelinquenza.

I miei genitori avevano deciso che avrei fatto Ragioneri Informatica, non chiedetemi perché, e io avevo preso la cosa per come si prendeva allora: ok. Funzionava così per tutto. Ti mettevi a tavola e mangiavi quello che c’erano nei piatti, andavi in vacanza, se ci andavi, dove ti portavano, andavi a scuola dove ti iscrivevano. E per altro non credo che neppure se ne parlasse, tipo che qualcuno si premurasse di spiegarti cosa avresti studiato. Erano altri tempi, appunto.

Io ero in una classe della cosiddetta distaccata, che era una sede che non si trovava nell’istituto centrale, proprio sopra l’azienda tranviaria dove lavorava mio padre, ma dalle parti del Piano, tecnicamente Piano San Lazzaro. dove abitavano i miei nonni e dove per un po’ avevo giocato a calcio, sempre accompagnato da qualcuno. Anche qui, una precisazione, siccome si andava a scuola nel quartiere nel quale si viveva, questo fino alla fine delle medie, e quindi tendenzialmente si frequentavano amici del nostro medesimo quartiere, io non ero mai andato fuori dal centro di Ancona da solo, neanche una volta, credo. Avevo l’abbonamento all’autobus gratuito, in quanto figlio di un dipendente dell’azienda di trasporti locale, ma non lo avevo praticamente mai usato. Al termine delle scuole superiori c’era l’esame di maturità, da poco ripristinato dal Ministro Valditara, ripristinato con quel nome, intendo, ma un minimo di maturità credo la si pretendesse, a ragione, sin dal primo giorno di scuola. Altro piccolo aspetto, poi arrivo a questo primo giorno di scuola, ai tempi, sin dalle elementari, capitava che si uscisse da soli, nel quartiere. Si andava a giocare a calcio, io in realtà inizia un po’ dopo, verso le medie, perché prima studiavo violoncello presso l’Istituto Pergolesi, e quindi il mio maestro, tale Moscardelli, che per sfiga abitava nel palazzo di fronte a quello dove abitavano noi, non voleva giocassi a calcio, per paura che mi si rovinassero le cartilagini, si andava quindi ipoteticamente a giocare a calcio, e si andava in uno dei luoghi che al giocare a calcio, noi dicevamo “a pallone” erano preposti, quindi o il campo del Pincio, o quello della Lunetta, alla peggio quello di Cittadella, più spesso quello della Piazzetta, la porta sghemba fatta dal sottoscala della stradina che portava da Via Redipuglia in via Rovereto, e altro non si diceva, in casa. “Vado a giocare a pallone”, senza specificare con chi e dove, e neanche fino a quando, ai tempi non c’erano i cellulari e spesso neanche gli orologi. Come si faceva, quindi? Intendendo con quel “come si faceva?” come si faceva per i genitori a sapere dove i figli fossero, e per i figli sapere quando tornare a casa? Semplice, i genitori non lo sapevano ma sapevano che a una certa ora, quella preposta, prima di cena, i figli sarebbero tornati, a indicare quel “a prima di cena” la luce, d’inverno o magari l’ora detta da qualcuno con l’orologio. Se mai ci fosse stata una qualche urgenza i genitori avrebbero chiamato uno dei genitori degli altri amici con cui si andava a giocare a calcio, nel caso della piazzetta lì vicino c’era casa di Giacomo o di Mario, per dire, e si chiedeva loro di dare una voce. Per il resto era l’impero della mancanza di notizie. Nessuno sapeva ma neanche nessuno pretendeva di sapere o si preoccupava per il non sapere. Non che il mondo fosse un posto più sicuro di oggi, un mio amico di cui non ricordo il nome, vattelo a ricordare, raccontò un giorno con candore che il tizio di cui di tutti iniziarono a parlare, che era uso far vedere il pistolino ai ragazzini, aprendo letteralmente e letterariamente l’impermeabile, come nelle vignette della Settimana Enigmistica, era solito stazionare dietro la piccola aiuola davanti al nostro palazzo, dando soldi ai chi si fermasse a guardare, unico caso di showman che paga il proprio pubblico. Lo disse perché era tra quel pubblico, di tanto in tanto, un modo per avere qualche spiccio con cui giocare ai videogiochi nella saletta piccola del vicino Bar Veneto, e quello che è stato il nostro primo direttore delle elementari, di cui ovviamente non ricordo il nome ma la faccia sì, venne allontanato per faccende che, ho scoperto solo qualche anno fa, oggi lo avrebbero profilato come “sex offender”, messo a dirigere una scuola piena di bambini e bambine, quindi no, non erano tempi più sicuri di questi, ma c’era quella rassegnazione verso il destino, o forse quel fatalismo, non so se esiste questo termine, per cui non si poteva controllare tutto e quindi non si pretendeva di controllare tutto, come invece succede oggi. Oggi non manderei mai i miei figli piccoli in giro senza cellulare, col posizionamento della App Family Link, e non lo manderei in giro senza sapere dove, anche se poi ora è facile che io scopra cosa hanno fatto quando tornano a casa. Se per caso però non rispondono al telefono, e i giovani non rispondono mai al telefono, mi preoccupo, smanio e quando poi tornano mi incazzo, ai tempi non era possibile. Quando con mia moglie raccontiamo questo ai nostri genitori, mia suocera, per parte sua, e i miei genitori, per parte mia, più spesso a mia suocera, che ogni tanto passa del tempo con noi a Milano e che comunque ha passato anni con noi a Milano, quando i gemelli erano più piccoli, per darci una mano, in genere si offendono, o quantomeno si inalberano. Perché leggono queste parole non per quel che sono, mera cronaca, ma come una sorta di denuncia: “voi non ci seguivate come noi seguiamo i nostri figli”. Così non è, ci si limita a raccontare una differenza evidente, i genitori davano valori, regole, i figli seguivano quei valori, almeno fino a un certo punto, e quelle regole. C’era ovviamente amore genitoriale e filiale, ma non c’era esattamente quel controllo. O almeno non sempre. E si tendeva molto meno al dialogo. Spesso il dialogo su certi temi non esisteva proprio. Io, per dire, poi passo davvero oltre, le cose sul sesso che toccava scoprire le ho scoperte parlando con gli amici, Daniele, mio compagno di banco alle medie dopo Cipolla, mi ha fatto capire che le femmine avevano i genitali sotto, e non di fronte come noi. Perché avevo sì una sorella più grande di me, ma in casa si era molto pudici, quindi non l’avevo mai vista nuda. Un giorno, giocando a uno di quei giochi scemi per cui devi disegnare un animale che però inglobasse nel nome un oggetto o che quantomeno creasse con quel nome una crasi, tipo S-puma-nte, quindi un puma a forma di bottiglia, disegno un polipo con un ciuffo di peli sopra i tentacoli, chiamandolo Poliporno, aprendomi a un mondo, il resto lo fece un giornaletto “zozzo” trovato lì nella porta fatta dal sottoscala della piazzetta, figuriamoci se se ne parlava in casa. E figuriamoci se in casa qualcuno mi aveva consultato per sapere se mi interessava fare Ragioneria, quella era una scuola che dava una professione, eccomi iscritto a Ragioneria Informatica, che il futuro era dietro l’angolo. Il mio, di futuro, mi avrebbe infatti poi visto cambiare scuola, e passare da Ragioneria al Classico, primo in famiglia, mia sorella aveva studiato Oboe al Conservatorio e mio fratello aveva frequentato il Nautico, io uno dei cinque studenti promossi al primo anno di Ragioneria, nella mia classe, poco adatto però a quel tipo di studi, a detta di tutti i professori, che pensavano fossi decisamente più portato per le materie umanistiche, una mia presunta vocazione per il sacerdozio, in realtà più indotta che reale, a fare il resto.

Tornando però a quel primo giorno, me lo ricordo ancora oggi, a distanza di così tanti anni, oltre quaranta, perché il mio primo giorno alle superiori, Ragioneria Informatica presso la sede distaccata dell’Istituto Benincasa di via Gigli, fu piuttosto singolare. Entrai in classe al suono della campanella, poco pratico dei mezzi avevo rischiato di arrivare in ritardo, salvo poi scoprire che il primo giorno di scuola era in realtà stato il giorno precedente, io non mi ero informato e così era successo per i miei genitori. Quella che oggi si definirebbe una cringiata, se fossimo studenti al primo giorno di scuola alle scuole superiori, le secondarie di secondo grado. Altro non ricordo, se non che il mio compagno di banco, Gianluca, mi passo un giorno una cassetta dove aveva registrato un album di un tizio che cantava davvero in maniera strana, la sua voce roca, fumosa, canzoni altrettanto strane, un po’ melodiche, un po’ rock. Era Presente, album di Enrico Ruggeri che conteneva quella perla di Nuovo Swing, presentata al Festival di Sanremo. Oggi Enrico è uno dei miei più cari amici nel mondo dello spettacolo, oltre che uno degli artisti che maggiormente stimo in quello che è diventato il mio ambiente di lavoro, ma ai tempi è stato forse colui che più di ogni altro mi ha fatto capire che Ragioneria non era la mia strada, e che comunque le parole mi interessavano decisamente più dei numeri.

Dico tutto questo, o meglio, l’ho detto con così tante parole e addentrandomi in così tanti aneddoti, perché oggi è il primo giorno di scuola, primo giorno di scuola alle superiori, quindi alla scuola secondaria di secondo grado, dei più piccoli dei nostri quattro figli, Francesco e Chiara, quattordici anni fra meno di due settimane. Avendo altri due figli più grandi, Lucia e Tommaso, non il nostro, mio e di mia moglie Marina, primo primo giorno di scuola, ma indubbiamente l’ultimo tra quelli significativi, di inizio di un ciclo scolastico nuovo. Parlare e parlare è un modo, il mio, per narcotizzare emozioni e ansie che non voglio palesemente visibili, oltre che per fare un augurio a loro e a tutti quelli che cominciano l’anno scolastico, che anche questo sia pieno di suggestioni interessanti, di conoscenze importanti, di studio e umane, e di vita palpitante. A chiosa di quanto detto fin qui, scrivo queste parole dopo aver lasciato a scuola mia figlia Chiara, prima di noi mia moglie aveva fatto lo stesso con nostro figlio Francesco, il Liceo che hanno scelto, con due indirizzi completamente diversi, prevedeva che ogni alunno fosse accolto in Aula Magna alla presenza di uno dei due genitori. Io, per la cronaca, indossavo la maglietta di Guida Galattica per Autostoppisti di Douglas Adams che recita “Don’t Panic. 42 is The Answer to Life, the Universe and Everything”, sia mai che qualcuno dei professori o degli altri genitori non debba capire da subito di che pasta sono fatto. Ai miei tempi, almeno, noi ragazzini non dovevamo gestire la presenza ingombrante di certi genitori, credo.

Lasciandoli, dopo aver spiegato loro come tornare con la metropolitana, ho detto loro di riaccendere il cellulare, da oggi proibito in ogni scuola da Valditara, un ministro che evidentemente è ben sintonizzato coi tempi in cui viviamo, quelli nei quali col telefonino ci paghiamo le bollette, ci prenotiamo gli aerei, ci leggiamo il registro elettronico di scuola, consultabile in ogni istante per vedere se i figli sono in classe e per sapere prima di loro come è andato un determinato compito in classe, e gli ho detto questo per sapere come è andata prima che me lo dicano a voce, arrivati a casa, e per sapere per che ora arriveranno.

Non hanno ancora chiamato, credo che a breve chiamerò la S.W.A.T. per fare irruzione in classe.