Non ho mai compreso del tutto questa meraviglia nei confronti della notizia che credo in Dio. Meraviglia o dovrebbe meravigliare, semmai, la notizia che il fatto che io creda in Dio sia una notizia, perché non credo di essere così rilevante, o meglio, non credo che il mio rapporto con la fede sia così rilevante, nel mio settore una certa rilevanza credo di averla e fingere di non saperlo o di non averlo rischia di inficiare quanto sto scrivendo, penso, e anche perché penso che a credere in Dio sia un numero sufficiente di persone oer non guardare a questo semplice fatto come fosse qualcosa di incredibile o di straordinario.

Magari qualcuno, l’ultima volta è successo mentre ero a Porto, in diretta radio con Stefano Molinari di Radio Radio, subito dop9 la già raccontata cagata di piccione sul mio braccio, potrebbe essere oggetto di stupore il fatto che a credere in Dio e a dichiararlo serenamente sia io, che proprio nel mio campo lavorativo sono conosciuto per un linguaggio a volte duro, Stefano m ha descritto come “cattivo”, e anche politicamente scorretto, ma questo è riconducibile a una sommaria lettura della fede, come se cedere comportasse un atteggiamento necessariamente omologato, supino, lineare. Credo in Dio, e in effetti sto facendo il Cammino di Santiago, anche se non è necessario credere in Dio oer fare il Cammino di Santiago, con noi c’è nostra figlia Lucia che credo si professi atea o agnostica, e che sicuramente non crede nella Chiesa come istituzione, e credo che dichiarate senza troppa enfasi, ma anche senza vergogna la propria fede sia cosa buona e giusta, perché pone un ipotetico interlocutore di fronte a una complessità, nell’oscurità pacifico la mia. Certo, a voler leggere alla lettera il Vangelo a un certo punto si parla di “non essere di scandalo”, ma se ci si scandalizza per un linguaggio duro e colorito, temo, non è certo la fede del proprio  iinterlocutore il problema. Del resto non credo che il Vangelo vada preso.alla lettera. È una mia personale interpretazione del credere, che magari mi porta a non essere standardizzato sulle indicazioni di Santa Romana Chiesa, ma qui si stava parlando di Dio, non di Chiesa. Riguardo quest’ultima ho molte idee, e non tutte coincidono con quelle che ci si potrebbe e forse dovrebbe aspettare da uncredente, specie da uno che è figlio di un diacono, mio padre Learco, ottantantanive anni, diacono, ha sposato in Chiesa me e mia moglie, ha battezzato i nostri quattro figli, io sono stato anche catechismo, ma ho idee mie, che non penso siano così rilevanti da essere raccontate qui, in un diario del Cammino di Santiago. Ma credo che far sapere che credo non sia nulla di straordinario, ma neanche qualcosa da dire con quella strana forma di vergogna che a volte sembra accompagnare la propria fede. Se ne parla spesso con nostro figlio grande, Tommaso, che dei quattro è indubbiamente quello con le idee più ortodosse, non solo in fatto di fede. Lui lamenta spesso che i cattolici, o più in generale i cristiani siamo assai meno inclini dei musulmani e degli ebrei a far sapere di essere tali, cioè cattolici e cristiani. Quasi, come se se ne vergognassero. Poi lamenta anche il fatto che I cattolici e i cristiani permettano, a suo dire troppo, ai non cattolici o cristiani, di “scherzare coi santi”, intendendo con questo a ridere o peggio insultare riguardo faccende afferenti alla religione, fatto vero che a me sembra qualcosa di cui andare in realtà orgogliosi, perché non a caso “essere talebani” non è inteso come un complimento, come “essere bigotti”, ma che comunque nasconde una qualche verità. Cita spesso, Tommaso, un personaggio come Ghali, apparentemente non proprio un musulmano retto e ortodosso, tra rifermenti al fumo e al’alcool nelle sue canzoni, e lo cita perché la sua conversione pubblica, lui alla Mecca, roba del genere, è stata accolta con grande apprezzamento un po’ da tutti, poi invece se Shade, faccio un nome a caso, mdice di essere credente, ecco le bestemmie nei commenti, o le prese per il culo. Attenzione, non parlo solo di dire “credo in Dio”, quello è gratis e può passare, ma magari dire di andare alla messa, ecco, sfido io di trovarmi un artista che dichiari di andare alla messa, dice Tommaso. E benché io in queste discussioni tenga sempre posizioni divergenti, perché l’ortodossia mi fa paura sempre e comunque, e preferisco Charlie Hebdo a un bigotto, non vedo come dargli davvero torto. Io, per inversi, vado alla messa di domenica. A volte non solo di domenica. E sto facendo il Cammino di Santiago, raccontando anche di come fatichi a andare di corpo, o di come mi ritrovi a augurarmi la morte di un vicino di letto perché russa, si chiama paradosso o iperbole, ovviamente, perché credo in Dio e penso che mettersi alla prova in un pellegrinaggio possa aiutarmi davvero a riconnettere quelle parti di me stesso che la vita frenetica ha messo in stand By con il restante me stesso.

Questo nonostante posso supporre, così a occhio, che parte dei pellegrini che abbiamo incontrato lungo il nostro cammino non siano qui per questioni di fede, perché camminare è camminare anche per chi pensa che Dio non esista, o che non si chiami Dio, e che comunque Santiago sia semplicemente un nome esotico da dare a proprio figlio se si è una starlette televisiva.

Ecco, per dire, io di Santiago, alias San Giacomo Maggiore, sapevo davvero poco, pochissimo, e a parte che era uno dei dodici apostoli, e che c’era un altro Giacomo tra i dodici, come dicevo ho scoperto la cui testa è altre parti del corpo ora si trova nelle cripte della cattedrale di San Ciriaco, in Ancona, non sapevo davvero nulla. A dirla tutta non sapevo manco che Santiago era un santo, San Giacomo, pensavo piuttosto a un luogo, come Sanremo, che non facesse riferimento a un santo specifico, ma che, come a Loreto, avesse una cattedrale con qualche motivo serio per essere diventata luogo di pellegrinaggio. Magari, mi dicevo, non che pensassi sempre a Santiago di Compostela, c’era stato qualche miracolo come a Lourdes, dove per inciso anni fa sono andato come volontario, ma in treno, o Fatima, dove non sono stato, o Medjugorie, dove sono stato, ma dove la Chiesa non ritiene ci siano motivi seri dove andare. Ecco, per me la Chiesa è anche questo, beghe legate a faccende come il riconoscimento di fatti straordinari che poco mi appassionano, per non dire nulla. I dogmi, per intendersi, sono faccende afferenti agli uomini, perché mai dovrebbero interessarmi?

Questo tanto per spiegare perché ieri ho chiuso come ho chiuso la mia pagina di diario, complice anche le parole che don Fabio ci ha detto durante la messa all’Iglesia di Santa Maria del Cammino. E questo anche perché proprio durante la predica, sempre lui, ci ha detto che uno dei più importanti libri sul Cammino di Santiago, non sono sicurissimo questo sia il titolo e ovviamente non ricordo il nome dell’autore. L’idea che l’autore, e don Fabio con lui, voleva trasmettere quella che fare il Cammino di Santiago sancisse un cambiamento radicale e definitivo. Qualcosa tale da poter parlare di un “prima di” e di conseguenza di un “dopo di”. Certo , se si pensa ai cammini dei primi pellegrini, quelli che duravano mesi e mesi, e che poi prevedevano anche mesi e mesi per il ritorno a casa, un cambiamento è anche ipotizzabile, un anno per compiere un viaggio è cosa che oggi si potrebbero permettere in pochi, e forse anche allora, ma non so se sia ipotizzabile parlare di qualcosa del genere anche ai giorni nostri, quelli della frenesia e frammentarietà, della perenne connessione col mondo e con gli altri, o meglio, quelli della connessione che facciamo per mezzo di una fittizia rappresentazione di noi stessi, e anche per un Cammino di Santiago come il nostro. Di cambiamenti magari non è il caso di parlare, o almeno non è questo il momento per fare già una ipotesi del genere, ma indubbiamente un passaggio importante, non fosse altro perché, per certi versi, proprio in questi giorni abbiamo più o meno consciamente praticato una forma di disconnessione quella sì radicale. Ci arrivo, ma prima vi racconto qualcosa di Santiago. Lasciataci da parte quella sensazione di grande città assai poco antica provata inizialmente, Santiago di Compostela è davvero una gran bella città, gran bella città grande, coi suoi novantaseimila e rotti cittadini è praticamente come Ancona, la città nella quale io, mia moglie e i nostri primi due figli siamo nati. Il suo centro storico, con la cattedrale al centro, le quattro chiese a croce nei punti cardinali, e tutti quei vicoli e viuzze oggi pieni di negozi, bar, ristoranti o alberghi, è davvero affascinante, il nostro hotel si trovava sopra la piazza dedicata a Cervantes, alle spalle della cattedrale, ma già fatti pochi metri si respirava tutta la festosa aria di un posto dove la gente arriva stanca, ma ritrova subito energia. Energia che è visibili e ascoltabile ovunque, nei canti di chi arriva o è già arrivato, nei  saluti tra pellegrini che si rincontrano, nelle voci di chi prova a venderti qualcosa o farti andare a mangiare nel suo ristorante. E poi c’è la cattedrale, imponente e bellissima, con quelle pietre del colore della sabbia che contrastano con un cielo azzurro, pur velato da qualche nuvola. Perché poi non ci sono tornato su, ma Eleonora, la mia amica, non ci ha azzeccato affatto sulle piogge che ci avrebbero tormentati tutti i giorni, ha appena piovuto quando eravamo neo temibile El Timonel, altrimenti è stato sempre bel tempo, ma ci ha preso eccome riguardo il fresco, che nelle prime ore della mattina e in quelle della sera diventava addirittura freddo. È perfetto il Cammino Portoghese, per chi vuole farlo a agosto. Il sole picchia nelle  ore calde, ma per il resto è assolutamente sopportabile. Tornando a Santiago, al centro tutto ruota intorno al Cammino, e mi sembra anche logico, col milione di pellegrini che tutti gli anni vengono qui, praticamente ininterrottamente da aprile a ottobre, giusto una flessione in luglio perché fa appunto più caldo. Già da metà mattina, quando chi come noi è partito da un comune vicino arriva in città, la praza do Obradoiro comincia a ripempirsi di pellegrini, molti a farsi i selfie di rito, pur festanti ma con contegno, altri a pregare. Poi magari si va a prendere la Compostela, a fare pranzo, a fare un riposo, noi no, siamo andati a messa, e infine ci si ritrova in piazza, sempre lì, quando il sole è calato da un po’, e qui il sole cala tardissimo, per cantare coi musici in costume d’epoca canzoni di chiesa e di tradizione locale. Poi, in teoria, si va a dormire, parlo dei nostri progetti, perché di mattina presto vogliamo andare a vedere l’interno della cattedrale, il museo, le terrazze, ma soprattutto a visitare la tomba di San Giacomo, che è poi il motivo per cui saremmo venuti qui. Dico “in teoria” perché il resto delle persone che vivono a Santiago, o che ci sono di passaggio oggi, non sono stati informati della cosa e si sono dati appuntamento sotto il nostro albergo, nello specifico sotto la nostra finestra. Fino alle tre e mezza di notte è la fiera, il circo, il caos vero, tutti che parlano, cantano, giocano a pallone, anche bambini piccoli, come tale Miguel, che dalla voce potrebbe avere tre, quattro anni, chiamato di continuo dalla madre non perché la smetta di rompere i coglioni a noi che vogliamo dormire, ma così, per vezzo. Ciò nondimeno alle sette e trenta suona la sveglia, e il programma è di andare subito in cattedrale, per evitare la coda, poi a fare colazione e quindi all’ufficio biglietti del museo, nella speranza che si sia aperta una nuova finestra per visitare la torre e le terrazze. Bel programma che viene sabotato dai miei familiari, che vogliono prima mangiare, col risultato che quando arriviamo alla porta laterale della chiesa, la sola già aperta alle nove e trenta di mattina, e il tipo all’ingresso ci dice che con gli zaini non possiamo entrare, o li lasciamo fuori incustoditi come altri pellegrini hanno fatto o facciamo a turni, e quando quindi facciamo a turni e entriamo io, Marina e i gemelli, incappiamo nella messa domenicale, noi dentro e Lucia e Tommaso fuori. Detto che l’interno della cattedrale è altrettanto bello che l’esterno, con questo sfarzo dorato che qui non stona affatto, è detto che una messa qui è esperienza che andava in effetti fatta, finita la celebrazione possiamo scendere, mentre Lucia ci tempesta di messaggi nei quasi lamenta e paventa chilometri di coda nel mentre di fuori. Comunque, finita la messa andiamo a vedere la tomba di San Giacomo, sotto l’altare. Si passa per un cunicolo, ci si trova di fronte una feritoia, poco più, da cui si vede una piccola urna argentata, senza troppe scritte o altro. Il tempo di una pregherai e si esce, trovandosi di fronte una scaletta, anche quella stretta. Di colpo ci si trova sopra l’altare, dietro la statua di Santiago, per quello che viene chiamato “l’abbraccio ai santo”, definizione piuttosto didascalica di quel che si fa, un abbraccio di spalle alla statua del santo seduto e incoronato, la medesima immagine che si trova in tutti i negozi di souvenir. Abbracciati il santo usciamo, e diamo il cambio ai due rimasti fuori. La coda sta aumentando, ma è ancora gestibile. Non c’è invece coda per andare al museo, bellissimo e ricchissimo di oggetti e memorabilia, e so che chiamando così vado fuori tema e continuo questo giochino della rockstar, ma un po’ è così, e lo dice il biografo ufficiale di Vasco Rossi e Cesare Cremonini, mica uno di passaggio. Io non potrò salire sulla torre, perché devo andare a recuperare la macchina che abbiamo noleggiato in aeroporto, e prima di andare ci spariamo tutti un panino al jamon serrano che fa il paio con quello di ieri, nel mentre una ottima paella di mariscos. Nei prossimi giorni, quando sarò a Finisterre, che per molti e storicamente è davvero l’ultima tappa del Cammino di Santiago, i nostri figli vogliono fare una foto lì non per devozione, ma perché ce l’ha fatta tale Human Safari, vi racconterò la faccenda della disconnessione e quindi del cambiamento, magari non così radicale, come temeva la ragazza che parlava col tipo di Cuneo incrociato nella nostra ultima tappa, ma mai dire mai. Per ora mi godo un po’ la Costa da Morte, tanto non ero scaramantico prima, figuriamoci ora.