Per ragioni che potrebbero essere evidenti, avendo io una famiglia numerosa, e scrivendo come scrivo, in maniera non esattamente lineare, mi sono molto abituato nel tempo a non dare per scontato che la linea retta che porta da A a B, indubbiamente la più veloce e breve, sia la sola plausibile, oltre che la migliore. Ho spesso fatto a riguardo l’esempio di chi si trova a dover fare sempre le scorciatoie, arrivando indubbiamente prima, ma privandosi non solo di quelle che non a caso vengono chiamate le strade panoramiche, ma anche di lasciare che l’andare alla deriva, a zonzo, decida per noi il percorso, oltre che quel che il percorso ci pone di fronte. Insomma, un po’ la differenza che passa tra routine e imprevisto, con la prima a fornirci praticità e sicurezza, la seconda a volte qualche meravigliosa soprpresa.

Tutto corretto, ma potrei anche andare oltre, dicendo che non è affatto un caso che chi si perde, o non va da A a B,  finisce per avere intuizioni, fare scoperte, a volte anche invenzioni, che chi percorre diligentemente quel percorso ormai conosciuto mai potrà avere.

Bene, spiegato in poche parole perché il video di Umberto Galimberti che racconta come oggi, secondo il suo agghiacciante punto di vista, ci siano troppe certificazioni per DSA mentre ai suoi tempi se uno andava male a scuola studiava e recuperava, oppure era semplicemente uno che andava a scuola è una cazzata di dimensioni cubitali, roba da coprirlo di pece e piume e farlo andare in giro per il Cammino di Santiago mentre la gente, giustamente, si prende gioco di lui, ci sono alcuni casi, questo è ovviamente uno di quelli, in cui la via lineare che da A va a B dovrebbe essere guardata con estremo amore, se non addirittura adorazione religiosa, e anche in questo la scuola che impone a tutti la strada che dà A va a B, dittatorialmente, fregandosene del fatto che ci si possa arrivare, a questa benedetta B, anche passando altrove, per G, per dire, o Z, perché non tiene affatto conto della variabile data dai dislivelli, A e B sono in linea d’aria vicini, ma nei fatti tocca scalare una montagna per arrivarci, o fare un giro lungo e tortuoso che nella mappa non è indicato. Ce ne rendiamo conto in questi giorni, per due ragioni specifiche: le distanze indicate sul planning che il mitologico Jeorge ci ha fornito sono quelle teoriche, in linea d’aria, ma nei fatti facciamo sempre molti chilometri in più, e le distanze in questione non sono mai state pensate tenendo conto dei dislivelli, per cui un chilometro in piano conta come un chilometro di scarpinata con pendenza el 15%, giuro che ne abbiamo fatto, o una discesa ancora più ripida, col rischio di farsi ginocchia e caviglie nuove. In  questi ci sarebbe potuto essere di supporto la app Buen camino, che come vi ho già raccontato mi ha fatto scoprire il tipo romano che viaggiava con la figlia quindicenne. Una app che non solo ti dice quanti chilometri in effetti è lunga una tappa, non teoricamente, ma praticamente, ma che indica anche tutte le salite e le discese, ponendoti cinicamente di fronte alla realtà: ricordati che devi morire.

Il fatto che una faccenda tanto ancestrale e antica come il Cammino di Santiago, finisca dentro una app è di suo una contraddizione, e vorrei dire che non me la so scaricata per questo, ma di fatto non me la sono potuta scaricare inizialmente perche pensavo di essermi bruciato sedici giga su ventuno nei primi tre giorni, e quindi pensavo che quando non potevo usare il Wi-Fi degli albergue dovevo assolutamente limitare l’uso del cellulare e di Internet. Poi, quando ho capito che di giga me ne ero bruciasti cinque su ventuno, e sedici erano quelli che mi rimanevano, perché nel mentre ho fatto talmente tante foto da aver riempito ogni singolo spazio nella memoria del mio smartphone, ogni due per tre lì a chiedermi, implorarmi quasi, di cancellare qualcosa, figuriamoci se potevo permettermi di scaricare una nuova sola. Li, però, tutte quelle variabili, nascoste dietro le fredde cifre delle distanze in linea d’aria, sono segnate, sia sotto forma di chilometri effettivi, sia sotto forma di salite e discese, quindi quel che ci sarebbe spettato oggi lo avremmo saputo quantomeno in anticipo, non che sarebbe cambiato qualcosa, ma almeno avremmo saputo di che morte saremmo morti.

Un passo indietro, Padron. Arrivati da Carracedo, senza troppo sforzo, ci siamo fermati a mangiare nei pressi del nostro albergue, A Meiga il nome. Un buon menù del pellegrino, qui quasi tutti i ristoranti e le taverne ne hanno uno, con Lucia che ha preso un piatto di pimiemtos di Padron, appunto, che a differenza di quelli di O Muino  erano assai piccanti. Quando poi siamo andati all’albergue, non troppo stanchi e piuttosto sazi, abbiamo avuto una piacevole sorpresa, a me e mia moglie Marina, infatti, era stata assegnata una delle due stanze singole dell’ostello, addirittura con il letto matrimoniale. Immagino un modo per Jeorge di farsi perdonare il casino dei giorni scorsi, casino riassumibile sotto il nome: El Timonel. A dirla tutta, e siamo qui per quello, sulle prime ci era quasi venuto un colpo, perché il tipo dell’albergue ci ha chiesto se eravamo quattro, aprendo scenari terrorizzanti, invece aveva evidentemente letto solo la registrazione dei quattro prosti dei nostri figli, la nostra in altra parte della pagina. Ovviamente ai nostri figli la notizia non ha fatto altrettanto piacere che a noi, con Lucia, che dei quattro è quella che sta incarnando alla perfezione il ruolo che avevo previsto avrebbe incarnato, quello della lamentosa, che ha provato a dire che noi fin lì eravamo sempre stati avvantaggiati nei posti, dimenticando che in partenza per ben due volte loro hanno avuto camere per loro quattro e basta e che comunque, quando c’è stato da essere vicini a estranei, ci siamo sempre sacrificati io e Marina. Stavolta no. L’ostello è molto carino, con una grande camerata, che ovviamente abbiamo visto solo di sfuggita, un bello spazio comune, non troppo grande ma vissuta, e bagni con porte molto fighe, il simbolo degli uomini è Mago Merlino e le,donne una strega a bordo di una scopa. La mostra camperà si intitola Reina Lupa, la Regina Lupa. L’albergatore, quando ci ha accolto, ci ha dato una mappa con tutte le cose importanti da vedere, la chiesa dedicata a Santiago, cioè San Giacomo Maggiore, che qui è venuto a evangelizzare e il cui corpo è poi stato riportato qui dopo la morte, prima di essere trasportato a Santiago di Compostela, chiesa che si raggiunge passando per il centro e lungo una piazza che presenta una statua dedicata a Rosalia. Occhio, non la Rosalia di Motomami, una delle più interessanti popstar spagnole, famosa in tutto il mondo, ovviamente, ma una scrittrice visssita nel diciannovesimo secolo, Rosalia de Castro, considerata una delle più importanti autrici nazionali, a lei è dedicata anche una seconda statua, vicino al nostro albergue, la Iglesia del Carmen, col vicino un ufficio del comune dove viene data una forma di indulgenza plenaria chiamata Perdonanza, mostrando la propria credencoal, e poi, facendo centoventi scalini, la Capilla di Santiaguito, chiusa, ma con una vista davvero notevole sul paese. Tutte cose che vedremo, dopo esserci un po’ riposati, fermandoci anche a ammirare il fiume che passa vicino alla chiesa di Santiago, uno molto più grande, credo l’estuario di un fiume maggiore, visto mentre entravamo in città.

Dopo una notte quindi assai più rilassata delle altre, non fosse per i dolori alle gambe e ai piedi, stamattina ci siamo messi in moto, la colazione fatta in ostello a base di succo, merendine e cappuccini delle macchinette. Di fronte a noi l’incognita di quanti chilometri ci toccherà fare, perché Google Maps indica due cifre differenti, sedici o diciotto chilometri, comunque più di quanti Jeorge, che ora per Marina è una specie di eroe nazionale, al punto che paventa di andarlo a trovare una volta arrivati a La Coruña, per me uno che ha messo una buona toppa a un buco, ma che coi numeri proprio non ci sa fare, più di quanti Jeorge ci ha prospettato, intendevo dire. E in effetti sarà così, ma a darci il colpo di grazia, diciamo così, la signora che prima di lasciare l’albergue De Meiga è arrivata a svolgere lavori, la quale ci ha detto che il tratto di oggi è molto bello, tutto tra i boschi, e che le salite, che mi è parso di capire ci saremmo trovate di fronte, non erano poi cosi ripide, anzi, erano mas dulce. E qui torniamo alla faccenda delle linee rette, e quindi delle distanze in linea d’aria, e le distanze che prevedano quelle che Battisti cantava come “discese ardite e le risalite”, anche se oggi di discese ardite se ne sono viste pochine. Ventuno chilometri, la tappa più lunga di tutte, ma anche la penultima, quindi la tappa più lunga con le gambe stanche, Lucia e Francesco anche con vesciche, e fortuna che prima di partire ho speso quasi cinquanta euro di cerotti ad hoc, spesso in salita, salite davvero ripide, a tratti nei boschi, spesso dentro bei borghi, a volti in strada assolate. Una fatica immane, va detto, fatta a fianco di una marea di pellegrini di tutte le parti, alcuni anche vecchie conoscenze, per dire a un certo punto abbiamo visto i tipi che facevano il bagno alle cascatelle di Segade, uno dei due, lì, ha provato a raggiungere il punto dove si creava quasi una piscina tenendo il telefono fuori dall’acqua portandolo in bocca come un cane con l’osso, col risultato che alla seconda bracciata è finito tutto sott’acqua, smartphone compreso, come dimenticarlo? La consapevolezza che quella di domani, almeno sulla carta, sarà una tappa assai più breve, Jeorge è il suo singolare rapporto coi numeri permettendo, a dare al tutto un non so che di malinconico, quasi di definitivo. Non così sembrano pensarla tutti i nostri figli, chi a lamentarsi del caldo, chi della troppa strada fatta. Alla fine, comunque, metafora della vita, arriviamo alla nostra nona tappa, O Milladoiro, sotto il Consello di Ames, in teoria a sei, massimo nove chilometri da Santiago di Compostela. Prima di andare al nostro ostello, il B&B Hotles, ci fermiamo a mangiare in una taverna del pellegrino dove, come da prassi, veniamo trattati di merda, noi come tutti i pellegrini presenti, spagnoli inclusi. Prendiamo tutti dei bocadillos, cioè dei panini, chi con il jamon serrano, chi col chorizo, che sarebbe il salame piccante, chi con degli hamburger, qui sempre molto buoni. Finito di mangiare, mentre vado a ordinare un dolce, vizio che oggi mi concedo visti i ventuno chilometri fatti, mi fermo a parlare con la coppia con figlia adolescente che stava di fianco alla nostra stanza all’albergue Albor, quello carino di Caldas de Reis. Scopro così che sono anche loro di Milano, che la ragazzina ha un anno meno dei gemelli, quindi ha fatto tredici anni mentre loro ne faranno quattordici a settembre,e che hanno altri due figli a casa, uno di ventiquattro, con la nostra Lucia, e uno di diciannove, entrambi ben lungi dal volersi fare un viaggio del genere. Ogni tanto, mentre parliamo, mi aspetti arrivi come un falco Marina, ma non arriva, sarà la stanchezza: voleva parlare con tutti e una volta che si instaura una bella chiacchierata lei non c’è. I tre, scopro, hanno fatto la tratta di cammino portoghese che parte da Vigo, appena più corta della nostra, ma in cinque giorni, infatti finito di pranzare riprenderanno il cammino fino a Santiago. Parlando esternano la loro ammirazione per essere riusciti a fare un  viaggio così con tutta la famiglia, forse perché non hanno sentito tutte le lamentele dei nostri ragazzi, e a un certo punto il padre dice anche una frase che suona così: “L’anno scorso allora non avevate figli alle superiori, vi vedo belli rilassati”, la distanza tra lui e un vaffanculo davvero brevissima. Torno al tavolo e scopro che Marina ha attaccato bottone con gli spagnoli, uno dei quali ha studiato a Perugia e parla italiano. Mi sembrava strano che Marina rinunciasse a socializzare con qualcuno. Paghiamo, riscontrando che l’antipatia e scontrosità delle cameriere resta tale anche al momento del conto, coerenti, e poi copriamo l’ultimo miglio che ci divide dall’albergue e quindi dalla doccia, chissà che sorpresa ci avrà riservato stavolta Jeorge…