Sei un pellegrino. Quando ero giovane, forse addirittura piccolo, col dire “Sei un pellegrino” si intendeva dar vita a un insulto. Non ho idea se fosse una cosa locale delle mie parti, Ancona, e in caso il riferimento immagino fosse ai pellegrini di Loreto, dove si trova una importantissima basilica mariana e quella che viene ritenuta la casa di Nazareth nella quale è cresciuto Gesù bambino, ma intuisco che il senso fosse dire di qualcuno che era malmesso, come un viandante che si sposta di città in città ore raggiungere la propria meta dormendo in luoghi rimediati alla bene e meglio e contando sull’aiuto di chi incontrava lungo il cammino. Non ho idea sé questa espressione sia ancora in auge. Non vivo più nella mia città natale e frequento gente che spero non faccia leva sull’aspetto di chi ha di fronte per insultare, e soprattutto nel mentre c’è stato il berlusconismo, che ha appunto evidenziato il divario tra essere ricchi e poveri, indicando in questi ultimi persone deprecabili, a ottenendo per contro per reazione che in molti hanno preso le distanze da una idea esibita di ricchezza come mai prima, parlo per me e i miei sim8i, e dopo il berlusconismo la cultura woke, che ha in questo caso giustamente preso le parti di chi è più debole, rendendo non solo e non tanto odioso l’insulto classista, quanto agghiacciante il solo pensare di poter dare del,povero a qualcuno e passarla liscia. Bene, chiunque faccia oggi il Cammino di Santiago, o meglio, chiunque dovesse incappare in un tratto del Cammino di a Santiago frequentato da parecchi pellegrini, come quelli che da Pontevedra vanno verso la tappa finale, dubito potrebbe mai associare la parola “pellegrino” a una di quelle immagini che in passato hanno,ispirato quell’insulto. Non dico tutti, noi non siamo tra quelli, per dire, ma molti dei pellegrini indossano abbigliamento hi-tech da jogging, canotte e pantaloni all’ultimo grido, associate a scarpe da trekking, zainetti ideati ad hoc e via discorrendo. Uno scenario che si potrebbe vedere un qualsiasi giorno dell’anno a Parco Sempione o in un weekend primaverile lungo l’idroscalo, altro che pellegrini. Ci pensavo oggi, tappa particolarmente frequentata, e pensavo anche a un’altra faccenda singolare, che coi pellegrini ci si saluta sempre, dicendosi “holà”, “buen camino” o “buenos dias”, e a volte si scambia anche qualche chiacchiera, specie con quelli con cui ci si incontra di sovente,e che hanno già fatto tratti di cammino insieme a noi nei giorni precedenti, magari condividendo anche qualche ostello, il tutto in un clima davvero eccezionale per quel senso di appartenenza che si genera tra chi sta vivendo una esperienza unica e importante, come entrare in una confraternita, o una cosa del genere, ma non ci si presenta mai. Ci ho in realtà pensato per la prima volta ieri sera, durante la diretta che tutte le sere faccio con mia moglie marina su Instagram, per raccontare cosa abbiamo fatto in giornata, e ci sono tornato su con la mente oggi. Ci ho pensato, e forse è questo sì segno di accumulo di stanchezza, sono arrivato alla conclusione che potrebbe essere qualcosa dovuto al fatto che i pellegrini si sentano parte di un tutto, quindi vogliano in qualche modo rinunciare alla propria personalità. O che magari nella ricerca di se stessi, quel degli walkabout aborigeni di cui parlavo giorni fa, non essendo una ricerca finita, portata ancora a termine, il rinunciare al nome sia come un rendere noto agli altri e e a se stessi di essere ancora in cammino e quindi alla ricerca, o più semplicemente una ammissione di umiltà. Di fatto no non ho trovato una risposta univoca e credibile.

Esatto, alla nostra ottava tappa, oggi siamo partiti da Carracedo, dove ci hanno riportati con un van da Caldas de Reis e siamo arrivati a Padron, patria dei pimientos, notizia en passant, una delle tappe più belle per paesaggio, ma vi racconto a breve, abbiamo camminato per le circa tre ore nelle quali abbiamo percorso i tredici chilometri in compagnia di un sacco di altri pellegrini, alcuni volti conosciuti, altri mai visti prima, e in buona parte sarebbero potuti sfilare per uno spot di Decathlon, in alcuni casi esibendo anche fisici piuttosto atletici. Ci è infatti capitato di partire con alcuni, polpacci sodi, culi scolpiti nella pietra, varie e eventuali, e via via perderli di vista, evidentemente con un passo più spedito del nostro. Passo spedito che poi porta alla stessa meta, e spesso anche alla stessa meta raggiunta alla stessa ora, perché chi va veloce in partenza poi magari ha bisogno di riposarsi. O di fare una sosta strategica, per questioni fisiologiche. Lo so, questa faccamde delle questioni fisiologiche sta diventando paradossale, sembra quasi che sia più centrale di qualsiasi faccenda spirituale, e ovviamente così non è. Però i pellegrini, cioè anche noi, vivono le giornate camminando, in genere la mattina lungo il percorso del Cammino, e poi riposandosi negli ostelli, nel nostro caso anche andando in giro da turisti per i luoghi nei quali soggiorniamo. Siamo quindi sostanzialmente appesi, e quando si è appesi i bisogni primari quali mangiare, dormire e anche andare in bagno, diventano primari. Siccome però si è appesi, appunto, essendo evidentemente non solo per me complicato andare nei cessi degli ostelli, capita ogni tot di vedere gente che spunta da sentieri laterali al Cammino, palesemente dopo aver espletato un qualche bisogno. Anche io ho usufruito di questi luoghi collaterali, ahimè solo per quello che i nonni chiamavano l’atto piccolo, e mi sono sempre ritrovato circondato da fazzoletti gettati a terra, corrpsiettivo selvaggio della carta igienica, con relative cagate. Il tutto anche in anfratti non così riservati, sui quali ci siamo spesso interrogati, perché ci sembrava evidente che chi vi si fosse mai acquattato sarebbe stato comunque ben visibile a eventuali pellegrini di passaggio. Oggi, per dire, ci è capitato di assistere a questa scena, che mi ha riportato alla mente un racconto familiare. Davanti a noi c’era una coppia di circa una decina di anni più di noi, lei con degli improbabili capelli rosa, lui con una maglia giallo fosforescente in realtà da ciclista. A un certo punto li vediamo uscire dal sentiero, per recarsi dietro un fienile. Peccato che davanti a noi ci si parava una curva, che volgeva proprio sul lato del fienile. Risultato: proseguendo nel nostro cammino ci siamo ritrovati di fronte il culo della signora, chinata in quella che solo nella sua fantasista era un momento di intimità, nei fatti una sorta di evento spettacolare. Il racconto familiare era quello che ho sentito dare decine di volte e che ha per protagonista una nostra vicina di quando ero piccolissimo, non ricordo il nome, che facendo di mestiere dell’infermiera era diventata il riferimento per tutto il quartiere ogni volta che toccava fare qualche puntura. La signora, di cui ricordo l’aspetto austero e nordico, mignon troppo diversa dalla signora Luisa della pubblicità di qui tempi, quella che arriva presto, finiva presto e spesso non puliva il water, passeggiando per quelle strade era solito girarsi dopo aver incrociato qualcuno dicendo a voce alta “Io quel culo lo riconosco”, per altro unico caso in cui in casa dei mie genitori era consentito l’uso di una parolaccia, altrimenti bandita. Oggi potremmo dire lo stesso della signora coi capelli rosa e il bel culo rotondo. Forse per quello i pellegrini hanno deciso in un tempo magari antico di parlarsi, scambiare sensazioni e emozioni ma non dirsi come si chiamano, perché nessuno associ mai una faccia e quindi un culo anche a un nome. Altroché ricerca di se stessi.

Scherzo, ovviamente.

Lo avrete capito, il mio umore è decisamente cambiato. Perché l’ostello di ieri, l’albergue Albor, è stato decisamente meglio di El Timonel, e perché la giornata di ieri, tornati a Caldas de Reis dopo la tappa breve fino a Carracedo, è stata decisamente rilassante e circondata da bellezza. La mattina siamo stati al parco botanico, a rilassarci, e io personalmente a scrivere a bordo del fiume, qualcosa di spettacolare che mi ha spinto anche a pensare che forse nella vita questo dovrei fare, più che occuparmi di un mondo agonizzante come la musica, andare in giro per il mondo e scrivere, così. Poi siamo andati a mangiare a O Muino, una taverna lì a bordo del parco botanico davvero deliziosa. Un posto molto local, frequentato da turisti ma anche da gente del posto, dove abbiamo mangiato benissimo e a prezzi onestissimi. Polpo, cannelli, salsiccia piccante, roba buona e di ottima qualità, davvero un’ottima scelta. Poi siamo andati a Albor, che abbiamo scoperto essere esattamente di fianco al bar dove avevamo fatto colazione, con una albergatrice davvero simpatica, socievole e col timbro più bello avuto fin qui sulle nostre credenziali, addirittura con la ceralacca. La location è un vecchio palazzo del centro, molto caldo e anche molto rock n roll, parquet come pavimento, bagni privati con tanto di box doccia, uno spazio comune pieno di strumenti musicali, quadri alle pareti e quel qualcosa di incasinato a dare al tutto un tocco di naivete fin qui unico. Davvero bello. A noi è toccata una stanza singola, con altri due pellegrini, ahiloro,e una famiglia divisa da noi solo,da una tenda. Anche la stanza di fianco  alla nostra è praticamente attaccata, divisa da una porta a vetri. Ci siamo docciati, riposati, e poi abbiamo deciso di andare a visitare un luogo che ci ha suggerito Jeorge, sempre lui, e anche l’albergatrice, scelta davvero azzeccata. Ci siamo incamminati dentro il parco botanico e costeggiando il fiume Umia siamo usciti da Caldas de Reis lungo un sentiero davvero bucolico. Un posto incantato, salici piangenti, giganteschi sassi in mezzo al corso d’acqua, qualche villetta affacciata sul corso d’acqua, fino a che non siamo arrivati, poco meno di due chilometri dopo, a Fervenza de Segade, delle piscine naturali con cascatelle e specchi d’acqua davvero incantevole. Il nostro Cammino è così, pellegrinaggio la mattina, vacanza il pomeriggio, doppia fatica, indubbiamente, ieri che la tappa presentava circa otto chilometri, alla fine ne abbiamo fatti quindici e trecento, meno del solito ma sempre parecchi.

Rientrati siamo passati al supermercato per prendere un po’ di frutta e qualche leccornia per la cena, cena che abbiamo consumato nel giardino dell’albergue. Prova provata che abbiamo ormai rotto il fiato il fatto che siamo poi andati a prenderci gelato e sangria, a voi ipotizzare chi ha preso cosa, e siamo andati a dormire alle ventitré e trenta, le nostre due compagne di stanza silenziosissime, una addirittura invisibile. Quella visibile, non bellissima da un punto di vista estetico, ha quasi fatto prendere un colpo a mia moglie Marina, quando è spuntata con le mani giunte in preghiera per chiederle di chiudere la luce del suo letto, vista l’ora. In effetti si è alzata un’ora prima di noi, è silenziosa come un ninja è venuta davanti ai nostri letti per recuperare le sue cose da un armadietto facendo slalom tra le nostre valige. Alle sette è suonata la sveglia, abbiamo fatto colazione nell’albergue, il primo a formirla, poi ci siamo messi in cammino per coprire i tredici chilometri fino a Padron. Mancano solo due tappe, e tutti apparentemente tranne Lucia sembriamo immalinconiti per questo. Certo, poi ci aspettano cinque giorni a La Coruña, quindi la malinconia non è per la fine delle vacanze, quanto piuttosto di un’esperienza che sicuramente è impegnativa, ma anche unica. Verrà poi il momento di fare i consuntivi, e di dare le risposte alle tante domande che ci siamo fatte, alcune delle quali ho a che riportato fedelmente in queste pagine, per ora c’è la consapevolezza di aver vissuto e tecnicamente star ancora vivendo un passaggio importante delle nostre vite, passaggio che domani ci porterà a O Milladoiro e dopodomani a Santiago di Compostela.