
Ho visto la puntata di Supernova, il podcast di Alessandro Cattelan, con ospite Eleazaro Rossi. Eleazaro Rossi, per chi non lo sapesse, è uno stand-up comedian, nonché un volto de Le Iene, motivo per cui, immagino, non c’è poi tanta gente che non lo conosce. In un passaggio dell’intervista, non amo particolarmente questo podcast, ma non per questo non mi capita di seguirlo, visto gli ospiti che lì passano, Cattelan ha raccontato che prima di cominciare Eleazaro di gli ha detto che il tassista che lo ha portato in studio dalla stazione centrale aveva la cover dello smartphone con su la faccia di Hitler, concludendo entrambi che presto questo aneddoto sarebbe finito in uno dei monologhi del comico. Perché, questo Eleazaro Rossi lo ha detto in altra parte dell’intervista, quando scrive un monologo parte sempre da un fatto accaduto nella sua quotidianità, cercando poi di partire da lì per arrivare ai grandi temi, la vita, la morte, la famiglia, la religione. Capisco perfettamente questo ragionamento, e se siete qui a leggermi perché siete miei lettori abituali saprete bene che è suppergiù la medesima modalità che adotto per la mia scrittura, pur essendo, la bio che trovate da qualche parte qui lo dice chiaramente, io uno stand-up comedian da scrivania, cioè uno che ha deciso che nella vita i monologhi li avrebbe scritti ma non li avrebbe detti, tanto per essere chiari. Se invece foste capitati qui per caso, per quei mille motivi per cui, navigando in rete o sui social ci capitano davanti articoli in apparenza a caso, in realtà è quella famosa faccenda degli algoritmi, o magari perché siete lettori abituali di questo magazine e vi state chiedendo chi diamine sia ‘sto tipo che scrive in maniera così strana, beh, vedere che ‘sto tipo che scrive in maniera così strana, che poi sarei io che al momento parlo in terza persona come Maria Grazia Cucinotta o un calciatore nel dopopartita, ecco, vedere che ‘sto tipo che scrive in maniera così strana, dicevo, ha iniziato questo scritto, questo testo, ‘sto tipo ama chiamare gli articoli pezzi, ‘sto tipo è proprio strano, usando la prima persona, quindi andando contro a ogni buona regola del giornalismo, ‘sto tipo non è un giornalista, ama dire, e poi proseguendo parlando di qualcosa che ha fatto, in apparenza nulla che riconduca all’argomento citato nel titolo, contravvenendo quindi all’altra regola aurea del giornalismo, quella che vorrebbe che nella prima frase si citi le cinque W, Who, What, When, Where, e Why, in italiano non viene così bene perché sarebbe Chi, Cosa, Quando, Dove e Perché, e contravvenendo anche a ogni logica SEO, che altresì vuole che nelle prime frasi ci siano elencate le parole chiave che poi finiranno nei motori di ricerca, ‘sto tipo, e ora basta, passo alla prima persona, io penso che i pezzi come questi, che sempre gli inglesi chiamerebbero “long form”, quindi pezzi particolarmente lunghi, altra regoletta non tenuta a mente, scrivere pezzi brevi, di facile e veloce lettura, ecco, penso che i pezzi come questo, i long form, vivano di vita propria, il fatto che io continui a scriverne e ci sia gente che continua a leggerli, voi in questo preciso momento, lo attesta. Ora, volendo proseguire in questa strana forma di autofiction, cioè in un pezzo nel quale entra a gamba tesa l’autore, parlando di cose sue personali, ma autofiction che è anche metanarrativa, cioè dove l’autore, che poi sarei sempre io, non solo parla di sé o di un sé verosimile, ma lo fa spiegando ai lettori, sempre voi, cosa sta facendo, abbattendo, direbbero a teatro, la quarta parete, se avete visto, che so?, uno dei film della saga Deadpool, della Marvel, avete in mente di cosa sto parlando, volendo quindi proseguire in questa strana forma di autofiction metanarrativa, potrei spostare il discorso proprio sul “in questo preciso momento”, quindi collegandomi alla chiusura della frase precedente, so che scrivo un sacco di relative e ricordarsi cosa ho scritto anche poco fa è difficile, ma essendo parole scritte vi basterà tornare indietro e controllare, non è poi così difficile. Quando dico che mi state leggendo “in questo preciso momento”, non essendo questo un discorso fatto dal vivo, ma un testo scritto, non intendo il mio “in questo preciso momento”, quando cioè sto scrivendo, ma il vostro “in questo preciso momento”, quando cioè voi starete leggendo, questo dando per assodato che voi, un voi generico che include chi legge, legga in sincrono allo stesso momento, e lo faccia tutto di seguito, e dando per assodato, voi, che io scriva tutto nello stesso momento, per dire proprio ora sono stato interrotto da mia figlia piccola che protesta per i troppi compiti, quindi presumibilmente il ritmo che avevo in mente cambierà, e anche l’umore di chi scrive, nello specifico il mio. Potrei quindi aprire una infinita sequela di parentesi, ma non se ne uscirebbe, e soprattutto non avrebbe poi tutta questa attinenza con quel che voglio scrivere, e confesso che proprio in questo istante, se uno mi tirasse per la manica della felpa e mi chiedesse “di cosa vuoi parlare?”, così, su due piedi non gli saprei neanche rispondere, confuso esattamente come voi che “in questo momento” siete arrivati a leggere fin qui. Ecco, sono dovuto risalire all’inizio, perché considerate che io, a vostra differenza, non ho qui sopra titolo e foto che in qualche modo mi suggeriscono, anche vagamente, il tema trattato, devo ricorrere a mezzi più spartani, come rileggere e ricordarmi. E sfido chiunque, leggendo le novecentosedici parole scritte fin qui, tante ne ho usate, possa capire di cosa volevo parlare. Però queste novecentotrentatré parole, nel mentre il numero è ovviamente cresciuto, le ho scritte per un preciso motivo, che ovviamente ora mi ricordo, quindi vado avanti. Se Eleazaro Rossi farà prossimamente un monologo a partire dal fatto che un tassista che lo ha portato dalla Stazione Centrale di Milano agli studi dove Alessandro Cattelan registra il suo podcast Supernova, aveva la cover dello smartphone con la faccia di Hitler, e sono sicuro che lo farà, io oggi voglio partire da una cosa che mi è successa stamattina in chiesa, poco prima di tornare a casa e vedere l’intervista di Alessandro Cattelan a Eleazaro Rossi, per altro. So che può suonare strano, e suona strano anche a me, a volte, ma io sono solito fare spesso un salto in chiesa, dove per chiesa intendo la chiesa di San Luca Evangelista, a Milano, la mia parrocchia, o una qualche chiesa che mi capita lungo il cammino, da che Beppe Sala ha optato per trasformare Milano, la città nella quale vivo da ventotto anni, una città green, dove girare in auto è praticamente impossibile, pur cedendone in parte il possesso a imprenditori edili, tutti sapete i casini che il Comune ha al momento coi costruttori edili, mi capita spesso di girare a piedi, prendendomi i miei tempi per camminare, e se cammini è facile che ti capiti nei pressi una chiesa. Il motivo per cui cammino, sia chiaro, è sia dato dal fatto che mi piace camminare, ma anche che devo dimagrire, è un fatto, e che girare coi mezzi mi porterebbe a condividere spazi stretti con un sacco di gente, sconosciuti, e io odio condividere spazi stretti con quelli che conosco, figuriamoci con gli sconosciuti. Il motivo per cui mi piace entrare nelle chiese, invece, è molteplice. Innanzitutto mi piace entrare nelle chiese perché mi piace ritagliarmi qualche istante per dedicarlo alla mia spiritualità, e questo so bene che suona strano, io sono quello punk, irriverente, “cattivo”, e poi perché mi piacciono le chiese. Chiaro che se entro nella chiesa di San Luca Evangelista, che è la mia parrocchia, non lo faccio per questioni estetiche, nonostante io ne apprezzi la architettura concepita da Giò Ponti, senza colonne, altissima, con delle volte squadrate a reggere il tetto, ci sono entrato talmente tante volte che potrei descriverne anche le macchie di umidità sulle pareti a memoria, lì ci entro per pregare. Altre volte ci entro per vedere anche la chiesa, che magari non conosco, o conosco ma ho visto poche volte. Le nostre chiese sono spesso molto belle, piene di opere d’arte. Ho anche un passato da catechista, ne ho già parlato, e proprio nei giorni scorsi è morta una cara amica che faceva la catechista con me, anni fa, e mio padre, ottantotto anni, è un diacono, quindi occhio a non lasciarvi ingannare dalle apparenze, ma non è di questo che voglio parlare oggi, “in questo preciso momento”. Oggi sono entrato in chiesa ma non sono riuscito a concentrarmi. Perché proprio nell’ultima fila a destra, San Luca Evangelista ha due ingressi ai lati della facciata, io entro sempre da quello di destra, anche se provengo magari da via Vallazze, che rispetto alla facciata della chiesa è a sinistra, proprio nell’ultima fila a destra c’era un tipo che si era sfilato le scarpe da tennis e stava guardando delle foto su WhatApp. Il mio sguardo, entrando, non si è potuto che posare su di lui, a un metro da me, unico altro essere vivente presente in chiesa, sempre che il sagrestano, uno tipo strano che conosco da circa diciannove anni ma che si ostina a salutarmi a mezza bocca, non fosse come spesso capita in uno sgabuzzino alla destra della porta sulla destra dalla quale entro. Ho visto prima i suoi piedi senza scarpe, infilati in un paio di calzini blu scuro, lucidi. Poi ho visto le due scarpe, da ginnastica, appoggiate sotto l’inginocchiatoio, i piedi erano invece oltre l’inginocchiatoio, usato per reggere i polpacci, le gambe tese in avanti. A quel punto sono risalito e ho visto che il tipo aveva tra le mani lo smartphone, e che stava guardando delle foto in una chat di WhatsApp. Volessi star qui a far narrativa vi direi anche che foto stava guardando, ma confesso di non aver visto nulla di preciso, se non una serie di foto. Anzi, una serie di immagini, che così a prima vista, potevano anche essere quei meme neutri che girano in certe chat di famiglia, parlo della mia, evidentemente, quelli con su foto finte di fiori e la scritta “Buongiorno” fatta in un finto corsivo, o che durante le feste ci augurano di volta in volta “buon Natale”, “buon anno” o “buona Pasqua”, ultima in ordine di arrivo “buona Festa del papà”. Un momento di relax, così ho identificato quel momento nella vita del tipo senza scarpe, e in effetti quello che anche io vado cercando in genere dentro le chiese potrebbe essere ascrivibile all’area del relax, un relax che magari non contempla il togliersi le scarpe e cazzeggiare su WhatsApp, certo, ma pur sempre che porti a un benessere di un qualche tipo, spirituale o psicologico che sia. Nel caso specifico, e solo Dio sa quante volte ho usato “nello specifico” in questo pezzo, credo che parte del discorso sia pure un certo ristoro, intendendo con questo il calore che la chiesa di San Luca Evangelista offre, specie in giornate così fredda come questa, freddissima nonostante un sole splendente, e viva Dio che la chiesa, magari anche la Chiesa, sia ancora un luogo dove trovare riparo e conforto.
Le parole, a questo punto, sono milleottocentosessantacinque, e magari una volta finito tornerò indietro aggiustando qualcosa, rendendo questo mio star qui a contare vano, o quantomeno impreciso, ci sarà qualcuno tra voi, immagino, come è chiaro che voi non conosciate me, se non il me che ho deciso di far trapelare dal mio scrivere, a voi decidere se fidarvi ciecamente dello scrittore e credere a tutto ciò che dico, magari sospendendo il giudizio, o tentennare dubbiosi, io non conosco voi, anzi, a parte qualche parente, amico e conoscente che suppongo mi leggerà, pur sapendo che almeno sul fronte familiari sono davvero pochi quelli che mi leggono, giusto mia madre e pochi altri, sono certo di non conoscere nessuno di voi, ma parlando fortunatamente di numeri non piccoli, i long form sono impegnativi, per chi scrive come per chi legge, ma tendono a creare anche per questo un certo legame, tecnicamente si parla di fidelizzazione, una fidelizzazione che arriva a superare anche il contenitore, chi legge i long form di chi scrive i long form li legge per chi li scrive più che per chi li pubblica, spesso arrivando ai long form tramite i social, e non riconoscendo neanche dove questi long form sono pubblicati, figuriamoci, e qui ovviamente non sto parlando di quella parte di voi che magari mi leggono oggi per la prima volta e quindi si stanno ancora chiedendo chi sia ‘sto strano tipo, quindi, siamo a duemilacento parole, ci sarà qualcuno tra voi che starà lì metaforicamente alzando il ditino pronto a chiedere, ok, hai parlato di Eleazaro Rossi che ha visto un taxista con la faccia di Hitler sulla cover dello smartphone, del tuo andare in chiesa, ti sei dilungato a parlare di autofiction, abbattimenti di quarte pareti, long form e delle regole del giornalismo che ti sei divertito a ignorare, e notate bene che in questo momento io, a tratti lo “’sto tipo” che parla in terza persona, è il “tu” cui il tipo col ditino alzato si sta rivolgendo, in pratica nel giro di duemiladuecento parole, tante sono, ho occupato militarmente le prime tre persone singolari che avevo a disposizione, se ora passassi a includere il me stesso e il voi in un noi un po’ paraculo, quando chi scrive passa al noi lo fa sempre per paraculismo, perché vuole tirare a sé i lettori, l’artificio letterario risulta per questo posticcio a occhio esperto, lo sappiamo bene noi che siamo qui parlarne, mica quei lettori distratti che si accontentano di quei pezzulli corti e da click baiting, un titolo e poco più, comunque il tipo col ditino alzato dirà ok, ti sei dilungato eccetera eccetera, non fatemi star qui a fare di nuovo il recap di quanto ho scritto fin qui, ma alla fine della fiera, il tipo è milanese o vive a Milano, io questa cosa del dire “alla fine della fiera” per dire “in conclusione” l’ho sempre sentita dire solo qui, anche se è pur vero che i milanesi milanesi non esistono in natura e tutto quel che si dice in genere riguardo i milanesi, il tipo col ditino alzato dirà, ok, ma alla fine della fiera, dopo che sei arrivato a dirci del tipo senza scarpe e col cellulare in mano che controllava le foto su WhatsApp, i meme su WhatsApp, cosa ci volevi esattamente dire? Domanda legittima, spiattellata così, senza corsivi e virgolette dentro una frase pantagruelica, lunghissima, manco volessi omaggiare la riedizione prevista a giorni dell’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, è chiaro che questa mia citazione colta, qui, serve giusto giusto a ridare autorevolezza a me che scrivo, mi tocca ammetterlo subito a voce alta perché è troppo spudorata anche per me, chiedo venia. Domanda legittima cui dovrei far seguire una risposta a effetto, qualcosa che fughi il dubbio che tutto questo mio scrivere, forse questo mio blaterare, sempre che ci sia almeno uno tra voi che possa anche solo pensare che il mio sia davvero un flusso di coscienza arrivato sulla pagina a caso, e non il frutto di scrittura ragionata, ogni parola esattamente al proprio posto, domanda legittima cui dovrei far seguire una risposta a effetto, se solo avessi una risposta a effetto.
Questa, lo avrete capito, è la terza parte di tre. Così diciamo quando ci troviamo a fare i conti con una qualche saga o format a puntate, un trilogia, terza parte di tre, siamo soliti leggere così. O meglio, siamo soliti leggere così se il format, la saga o quel che è in questione è composto di tre parti e ci troviamo appunto a affrontare la terza parte di tre. È questo il caso, ma non sto certo parando di saghe o format, quanto piuttosto di scritti, testi, pezzi, a voi decidere come chiamare questo che state leggendo anche ora.
Terza parte di tre perché, dopo aver parlato di pop e vita e morte, a partire da una imprevista visita a Ivrea (qui https://361magazine.com/il-pop-puo-cantare-di-tutto-dalla-vita-alla-morte-cosmo-e-antonella-ruggiero-ne-sono-la-prova/), e dopo aver parlato di musica da ascoltare sul divano, concentrandosi alla fine sulla figura (sdraiata sul divano) della cantautrice Simona Severini (qui https://361magazine.com/canzoni-da-divano-divagazioni-intorno-alla-musica-di-simona-severini/), ecco che oggi arrivo a un terzo viaggio psicogeografico fatto di parole, la musica sullo sfondo. Forse avrei dovuto dire terza parte di un trittico, magari fare il colto e citare una pala da altare, consapevole che non tutte le pale da altare sono trittici, ma ho invece parlato di pale né di altari, quanto piuttosto di parole scritte, le mie.
Siccome il mio scritto di ieri presentava come punto di arrivo Simona Severini proprio a partire dalle foto che spesso, se non sempre, la vedono rappresentata mentre se ne sta seduta o sdraiata su un divano, oggi avevo deciso di partire dalla fine, dichiarando sin da subito che quello che avreste letto, andando quindi a costruire un racconto circolare, dove punto di partenza e punto di arriva coincidono. Questo mi ero detto, e poi mi ero detto che e se lì era il divano il punto di arrivo, qui partenza e arrivo sarebbero stati i piedi, quelli del tipo visti in chiesta, la partenza, e quelli scalzi di un’altra cantautrice, converrete l’inutilità di tener nascosto il nome della titolare di detti piedi, visto che campeggia nel titolo e la sua faccia è nella foto di copertina, ma contando sulla vostra distrazione vedrò bene di non citarlo ancora, abbiamo fatto trenta facciamo trentuno, quel nome, lasciando che arrivi al momento giusto, quello che io personalmente ritengo giusto.
Le cose sono poi andate diversamente, e prima di arrivare ai piedi del tipo in chiesta ho parlato di altro, molto altro, perdendomi e lasciando che voi vi perdeste con me, quindi perdendoci assieme, mano nella mano.
Ora ci siamo, parto, non prima di aver fatto una per me doverosa precisazione, prendetela come una sosta all’autogrill per fare pipì prima di mettersi in marcia, sapendo che non sono previste altre soste a breve, se qualcuno dovesse mai pensare che il mio modo di scrivere dentro queste pagine, pagine web ma pur sempre pagine, sia pretenziosamente letterario, qualcosa di assai poco giornalistico, beh, quel qualcuno penserebbe bene, non sono un giornalista, piuttosto uno scrittore e critico musicale, che usa spazi dedicati alla musica per fare altro, sono uno che prende molto sul serio il proprio ruolo di intellettuale, tanto più in questa epoca nella quale dire intellettuale equivale quasi a dire stronzo.
Adesso parto davvero. Dai piedi. E da dove, se no? Ieri era un divano, oggi dei piedi, onnipresenti. Anche in buona parte delle foto di ieri, quelle sul divano, c’erano dei piedi, ma non gli stessi piedi. I piedi, non dico niente di particolarmente segreta, sono stati a lungo occultati alla vista. Lo sono stati perché indicati dalla Chiesa come qualcosa di peccaminoso, il punto di contatto tra uomo e la terra, forse anche per questo nel tempo diventati oggetto del desiderio, leggi alla voce feticismo. Qualcosa che, seppur concreto, si dice mica a caso “è uno coi piedi per terra”, al tempo stesso non è sinonimo di qualità. “è fatto coi piedi”, e potrei andare avanti con questi giochini di parole che però mi hanno già scocciato, figuriamoci se voglio tirarla per le lunghe. Leggetevi L’adorazione del piede di Berarda Del Vecchio, se volete sapere tutto a riguardo, pur di qualche anno fa è tutt’ora il testo più esaustivo a riguardo.
I piedi di cui parlo oggi, scusa per parlare della titolare di detti piedi, titolare che mica per caso anni fa, presentando un crowdfunding per il suo nuovo album, l’ultimo a oggi, si presentava come “la cantautrice scalza”, sono quelli che spesso, molto spesso, vorrei dire sempre la cantautrice scalza appoggia sul palco che la vede cantare e recitare, la cantautrice in questione è cantautrice, certo, ma anche performer in spettacoli teatrali, oltre che romanziera, da qualche tempo in qua. Una artista rinascimentale, quindi, lo dice un artista rinascimentale che nel tempo si è cimentato in varie forme d’arte, oltre alla scrittura, la musica, la drammaturgia, anche il cinema, toh, dotata, oltre che di bei piedi, la cantautrice lo sa e non li lesina, di un talento gigantesco, anche questo la cantautrice lo sa, ma su questo è più parca e morigerata, a mio vedere anche troppo, tirando fuori la propria musica con le pinze, qualcosa ogni tanto, e lasciando noi che la ammiriamo in apprensione, lì a controllare se ci sia qualcosa di nuovo, qualcosa di nuovo che però arriva davvero di rado, troppo di rado. Una cantautrice che affonda le proprie radici nel nostro sud, lei che è nata in Sicilia ma cresciuta in Veneto, e che poi ha spostato quelle stesse radici, perché come nel disco della Gang le sue radici sono munite di ali, anche in altri sud del mondo, il Portogallo, certo, il Brasile, anche. Una voce capace di creare empatia immediata, emozionare e emozionarsi, una scrittura che la asseconda in tutto e per tutto, la capacità di ricerca di suoni e suggestioni che solo i grandi artisti anni, mica per niente una come lei può permettersi di essere un’eccellenza pur selezionando quando esserci e come, alla faccia del singolo ogni mese preteso da Daniel Ek. Recentemente ha fatto un viaggio in Brasile, lo abbiamo visto sui social, noi che la seguiamo, anche lì con grande dispiegamento di piedi, e so, lo so perché me lo ha detto lei, e lo sta anche facendo trapelare timidamente sempre sui social, che sta lavorando a nuove canzoni. Nel mentre lavora a teatro, con Marco Paolini, e fa concerti, portando avanti il suo repertorio e a volte il repertorio altrui, infilandoci anche presentazioni del proprio libro, il bellissimo Ti ho vista ieri, romanzo di formazione che è al tempo stesso una immensa storia matriarcale e femminile, autobiografico e immaginifico, dove la storia comincia con la nascita e si ferma col diventare donna, il menarca a sancire la linea di confine, una capacità di scrittura davvero matura per essere un’esordiente. Tutto questo lascia ben sperare, specie in tempi come questi di musica fatta sì coi piedi. Ah, il nome della cantautrice scalza è Patrizia Laquidara, seguitela, ascoltatela, leggetela, andatela a vedere, prendetevene cura, non ve ne pentirete.