Valeria Golino protagonista di “La vita bugiarda degli adulti” si racconta a Vanity Fair
Valeria Golino protagonista di “La vita bugiarda degli adulti” si racconta a Vanity Fair. Ecco l’intervista
È appena tornata in tv come protagonista di «La vita bugiarda degli adulti» di Edoardo De Angelis, sei episodi, tratti dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, un ruolo per lei liberatorio, perché «sono piena di pudori», e nell’intervista sul nuovo numero di Vanity Fair, in uscita oggi, 4 gennaio 2023, si racconta a tutto campo. Dai registi che la rimproveravano, alla libertà dell’erotismo, alla sua vera arma segreta. E sul #metoo, a distanza di tempo, la pensa così: «Denunciare è stato giusto. Ma gli errori del passato hanno creato una claustrofobia. Quando si arriva al parossismo in cui i comportamenti umani, l’arte, la letteratura, la storia, devono rientrare nel diagramma del giusto o dello sbagliato, dell’inclusivo o non inclusivo, a quel punto la drammaturgia finisce. Il grande romanzo finisce. La musica finisce. La giustizia può diventare ottusa. Se tutti si devono adattare al senso comune e qualsiasi tipo di dissenso è malvisto, allora all’arte cosa rimane?».
Al polso «un orologio introvabile» che il suo fidanzato, l’avvocato romano trentaquattrenne Fabio Palombi, le ha regalato per Natale. «Ci sono oggetti che mi attraggono perché sono allo stesso tempo eleganti e marci dentro. Proprio come tutti gli uomini che mi piacciono».
L’erotismo, in tempi di #metoo, nelle relazioni professionali è bandito.
« (…) Se noi attori non veniamo trattati da creature sensuali e lucenti, questo mestiere cosa lo facciamo a fare? Lo vedo con gli interpreti con cui lavoro sul set, voglio che si sentano amati: sono molto affettuosa, sono fisica, li abbraccio e sbaciucchio tutti: sono una specie di love monster. Mi rendo conto che talvolta potrebbe essere fastidioso o forse sembrare inopportuno e se male interpretato, un giorno uno di loro potrebbe dire: “La Golino mi mette le mani addosso e io non voglio”, potrebbe farlo tranquillamente e denunciarmi, e creare un caso di #metoo da cui sarebbe difficile difendersi. Ma non c’è malizia, non c’è voglia di possesso in me. È proprio far scorrere quell’energia carsica che nell’arte per me non dovrebbe mai mancare».Ha vissuto a Hollywood, ci ha girato venti film e recentemente ci è tornata per The Morning Show. Come l’ha trovata in questo senso?
« (…) Continuo a volere bene a quella città, Los Angeles, dove ho passato parecchi anni della mia vita anche se poi quattro anni fa, forse troppo impulsivamente, essendomi trasferita del tutto in Italia, ho restituito all’ambasciata americana la Green Card da residente: ora tutte le volte che torno, all’aeroporto, la polizia mi fa un’ispezione aggiuntiva perché non riescono a spiegarsi come uno straniero abbia potuto rinunciare a un diritto così ambito».
Crede che il movimento #metoo sia diventato un’ideologia?
«No: denunciare è stato giusto. Ma gli errori del passato hanno creato una claustrofobia. Quando si arriva al parossismo in cui i comportamenti umani, l’arte, la letteratura, la storia, devono rientrare nel diagramma del giusto o dello sbagliato, dell’inclusivo o non inclusivo, a quel punto la drammaturgia finisce. Il grande romanzo finisce. La musica finisce. La giustizia può diventare ottusa. Se tutti si devono adattare al senso comune e qualsiasi tipo di dissenso è malvisto allora all’arte cosa rimane?».Ai tempi confidò che Henry Weinstein fu molesto anche con lei. Dalle sue «attenzioni» ebbe vantaggi? «No, non ne ho tratto vantaggi. Mi stava pure simpatico e avevamo dei progetti insieme. L’unico vantaggio fu non pagare un conto nel ristorante di New York che aveva insieme a Robert De Niro, il TriBeCa Grill: ci portai la famiglia e al momento di saldare trovai tutto sistemato. Ma quando le pressioni son diventate più forti e per me fonte di imbarazzo, mi sono molto adirata e non l’ho più voluto incontrare».
Leggi anche –> Terzo e ultimo appuntamento con la serie documentaristica BBC Frozen Planet II: le anticipazioni Fu violento? «No, mai. Non mi sono mai sentita in pericolo, ma i suoi modi mi mortificavano».
Lui l’ha ricercata? «Indirettamente, prima che scoppiasse lo scandalo. Mi ha fatto riferire da amici comuni quanto fosse dispiaciuto e che avrebbe voluto rivedermi. Ma l’unica via d’uscita era allontanarlo e sparire. Come ho sempre fatto in situazioni simili».
Non l’ha denunciato perché in fondo prova, o provava, affetto?
«Affetto no. Però, se le dovessi dire che non sentissi una stima intellettuale, che non godessi del carisma della sua conversazione, le mentirei. Per esempio era interessante parlare con lui di cinema. Finché poi arrivavano quell’istinto predatore, quell’abuso di potere e senso di baratto messi sul tavolo, a rovinare tutto. Avrei voluto poterlo guardare, senza che lui guardasse me».
Quando girò Rain Man il regista Barry Levinson quasi la cacciò dal set perché la trovava presuntuosa e impreparata. Le è più successo?
«No, cacciata non è mai successo, ma è vero che alcuni registi con cui ho lavorato mi hanno rimproverato della mia mancanza di disciplina È successo con Sean Penn, che sosteneva mi fidassi troppo dell’istinto. Con Silvio Soldini, persona quasi impossibile da far adirare. E con Antonio Capuano, che a un certo punto mi ha detto “Ah bella, che voi fa’, campare di rendita per sempre e basare tutto su quel bel faccino?”. Avevano ragione e io torto. E avere torto e sapere di averlo è una delle cose che mi umilia di più».
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