
Ora parlerò di connessioni intergenerazionali. O di disconnessioni, trarrete voi le conclusioni.
Che poi è un modo elegante per dire che proverò a spiegare quel che si trova in mezzo alle due frasi “Ai miei tempi era meglio” e “Ok, boomer”.
Per farlo partirò ovviamente da lontano, invitandovi a mettervi comodi e a seguire senza opporre resistenza questo mio divagare per il tempo e i luoghi, un giro panoramico che ovviamente è assai più lungo di una qualsiasi scorciatoia, ma ha almeno il vantaggio di offrire scorci altrimenti invisibili.
Nella casa dei miei genitori, in Ancona, Learco e Angela, classe 1936 e 1937, c’è in una stanza una parete corredata da foto della mia famiglia. Foto che risalgono parecchio indietro nel tempo, e partendo dai nonni di mia madre arrivano fino alla nipote di mia sorella Caterina, dieci anni fatti di recente, coprendo ben più di un secolo di storia.
Tra queste foto, alcune anche buffe, come quella nella quale mio cognato sembra sputato il Lionel Richie di All Night Long, non solo per i capelli cotonati e il baffo importante, ma anche per la t-shirt rossa esibita, ce n’è una che mi ha sempre colpito parecchio. È una foto in bianco e nero, credo che ai tempi in cui è stata scattata solo quel tipo di foto esistessero, che mostra un bambino di circa due, tra anni, pantaloncini corti, cappottino e cappello, per mano con un signore di mezza età molto elegante, anche lui col cappello, a falde, e il cappotto. La foto è scattata per il corso Garibaldi, all’altezza di dove un tempo c’era il bar La tazza d’oro. L’uomo che tiene per mano il bambino è mio nonno Mario, sì, ho un padre che si chiama Learco e un nonno che si chiama Mario, potere della toponomastica, e il bimbetto in calzoni corti è mio padre, Learco appunto. Siamo quindi intorno al 1938, 1939, prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, durante la quale i miei sarebbero dovuti andare sfollati dalle parti di Passatempo d’Osimo. Prima, immagino, che il gerarca di Ancona, non ho idea se ce ne fosse solo uno, andasse da mio nonno, che aveva fatto la prima guerra mondiale giovanissimo, negli arditi, lui che era un fervente repubblicano come tutta la sua famiglia, per chiedergli di arruolarsi. Già il non aver preso la tessera del partito fascista gli era costata il posto di lavoro, lui che era impiegato alle Ferrovie e di colpo si era dovuto cercare un posto da macellaio, ma questa era davvero troppo. Un colpo netto di mannaia, lì al mattatoio, e la prima falange del pollice della mano destra è saltato via, scena piuttosto splatter. Addio richiesta di arruolarsi. Comunque, tornando a quella foto, mio nonno Mario sembra un uomo di mezza età, la mezza età di oggi, laddove io, a cinquantacinque anni, quasi cinquantasei, vengo ancora considerato, anche da me stesso, giovane. In realtà non ha neanche quarant’anni, lui è nato alla fine dell’Ottocento.
Questa foto mi ha sempre colpito perché è oggettivamente una foto singolare, e perché scoprire che il signore di mezza età è in realtà in una età che oggi qualcuno ancora include nell’adolescenza lascia spiazzati. Ai tempi mio nonno e mia nonna, Emma, avevano anche un altro figlio, Enzo, nato nel 1920, sedici anni prima di mio padre. Sarà lui, sedicenne, a scegliere il nome di mio padre, chiaro omaggio a Learco Guerra, campione di ciclismo che ha letteralmente battezzato i soli altri Learchi vissuti in Italia di lì in poi.
A quarant’anni, quindi, mio nonno era un uomo adulto. Non dico anziano, anche se la foto questo potrebbe lasciar trapelare, ma sicuramente nulla che potrebbe far pensare all’idea di giovinezza. Del resto, mi hanno sempre raccontato, aveva i capelli bianchi sin da ragazzo, forse proprio un ricordo di quei tempi passati con gli arditi.
A casa di mio nonno, mi avvicino al tema, c’era una finestra affacciata su una strada che anche oggi è piuttosto trafficata, in Ancona, via Torresi. Ai tempi in cui erano vivi, entrambi sono morti a metà degli anni Ottanta, comunque anziani, di auto ce n’erano meno, ma abbastanza da incuriosirli. Il loro passatempo da anziani, infatti, era stare affacciati a vederle passare sotto casa, inconsapevoli di cosa fosse lo smog, è chiaro.
Sempre a casa loro c’era una tombola, che noi usavamo durante le feste natalizie, che passavamo sempre con loro, mio padre Learco, infatti, dal 1968 era diventato il loro unico figlio, morto suo fratello Enzo.
La tombola dei miei nonni, di quelle che prevedevano che si usassero dei fagioli per coprire le caselle, si chiamava La tombola dei capelloni, e mostrava un gruppo di hippie nella scatola come nel tabellone e nelle cartelle.
Ho messo degli elementi nel mio racconto.
Provo a tirare le fila.
Un uomo di poco meno di quarant’anni, negli anni trenta, era un uomo, un adulto, nulla a che vedere con un giovane. Se qualcuno lo avesse chiamato giovane, ho citato non a caso la falange fatta saltare con un colpo di mannaia, si sarebbe anche prese due pizze in faccia, c’è da scommetterci. Un bambino, negli anni trenta, era un bambino, i pantaloni corti erano a loro volta un segno distintivo dell’infanzia, infatti quando si diventava giovani adulti li si abbandonava per sempre. Nessun adulto sarebbe andato in giro coi calzoni corti, ai tempi, per corso Garibaldi.
Più avanti, parlo degli anni Settanta, a casa dei miei nonni, gente che ancora si meravigliava della auto, loro del resto erano nati nell’Ottocento, c’era una tombola che sorrideva dei capelloni, gente strana, che meritava di finire sulla scatola di una tombola.
Ritorno all’incipit. In genere, quando un adulto, magari anche un adulto che si sente giovane, seppur l’anagrafe dica altro, dice a un giovane “ai miei tempi era diverso”, a parte essere tacciato di boomersimo, questo anche se non rientra esattamente nella generazione dei Baby Boomer, poi ci arrivo, si finisce col dire “In fondo è sempre stato così, gli adulti si lamentano dei giovani, che diventeranno adulti e si dimenticheranno di essere stati giovani, andando a lamentarsi dei giovani del momento”.
Bene. Non è vero. Non è vero storicamente, e non è vero anche sociologicamente.
I giovani, quelli che oggi ci danno dei boomer, o almeno lo danno a me, non sono sempre esistiti. Quindi in passato, parlo dei tempi di mio nonno, ma anche un po’ di quelli di mio padre, nessuno poteva dire “ai miei tempi”, perché non c’erano stati quei tempi, i tempi in cui si è giovani, non c’era proprio la gioventù, nonostante qualcuno intonasse Giovinezza.
L’idea di gioventù, cioè di quella categoria che si trova tra l’adolescenza e l’età adulta, è stata inventata, suppergiù negli anni Cinquanta, un po’ come l’adolescenza stessa, in America direbbero i teenager, negli anni Cinquanta, quando appunto mio nonno era un signore davvero anziano, e mio padre era sì un giovane, ma un giovane nato e cresciuto in una parte del mondo dove certe innovazioni sarebbero arrivate con calma, in seguito.
Certo, già nei primi del Novecento l’idea di gioventù era stata presa in considerazione, prima si passava direttamente dall’infanzia all’età adulta, non c’era niente in mezzo. Prima con i Boy Scout di Baden-Powell, poi, attenzione, maneggiare con cura, con la gioventù nazista di Hitler, ma sarà con gli anni Cinquanta, quelli del boom economico, in Italia e parte dell’Europa, che i giovani diventeranno tali, perché a loro si guarderà come a un target commerciale ben preciso, il rock’n’roll, in questo, contribuirà non poco a creare ulteriore interesse su questa fascia d’età.
Ne parla diffusamente un intellettuale come Jon Savage nel suo saggio L’invenzione della gioventù. Che quello che doveva fungere da veicolo per compattare un target, definirne in qualche modo i confini, abbia in qualche modo preso il sopravvento, come una emancipazione non prevista a monte, è faccenda di cui si sono occupati i cultural studies negli anni, il rock’n’roll come apripista per una rivoluzione sessuale che si sarebbe poi tirata dietro tutta una serie di altre emancipazioni, è storia.
Mio padre, Learco, classe 1936, sposato a ventiquattro anni, tre figli al compimento dei trentatré, non è stato giovane come lo sono stato io, è indubbio. Mio nonno, che a vent’anni aveva già combattuto negli arditi durante la prima guerra mondiale, non lo è stato affatto.
Se io, negli anni Ottanta, ascoltavo gli Hüsker Dü con lo stereo a palla, mio padre avrebbe forse potuto lamentarsi di questa musica così rumorosa, andando a indicare in Domenico Modugno, in realtà a sua volta già considerato di rottura nell’alveo della musica italiana, quella del bel canto, Domenico Modugno che però piaceva anche a me, ma sicuramente se mio padre avesse ascoltato Modugno in casa di mio nonno, mio nonno non avrebbe potuto contrapporgli qualcosa, da una parte perché non usava fare queste contrapposizioni, dall’altra perché non c’era nulla da contrapporre, erano entrambe musiche da adulti. Il rock, che da noi è arrivato dopo, e che comunque non è mai arrivato agli orecchi di mio padre, se non attraverso la porta della mia camera, non era parte del loro immaginario, al punto che dei capelloni stavano disegnati nella scatola della tombola, il tutto mentre ormai Jim Morrison, Jimi Hendrix. Brian Jones e Janis Joplin erano morti da tempo, i Beatles si erano sciolti e Modugno aveva cantato quella porcata di Piange il telefono.
Prima i giovani non c’erano, poi, di colpo sono arrivati e hanno prosperato. Certo, si sono dovuti fare largo un po’ a spallate, non c’era questa attenzione quasi opprimente da parte dei genitori, una sorta di controllo misto a sensi di colpa per dover lavorare, per aver fatto i figli tardi, sarei degno di un Noi che dei Migliori anni della nostra vita se mi mettessi a fare l’elenco di come noi non frequentassimo corsi di vario genere ogni santo giorno dopo scuola, di come nessuno ci abbia aspettato con bouquet e spumante all’uscita dall’orale della maturità, di come non ci accompagnassero in discoteca e soprattutto non ci venissero a prendere alle quattro di notte, in attesa dentro le loro auto. Ci siamo fatti le ossa, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Ma no, dire che è sempre stato così è un errore storico, oltre che una sciocchezza.
Prima, del resto, non c’erano neanche le generazioni per come le conosciamo ora, con un nome specifico.
La prima volta che ho sentito parlare di Generazione X, sì, perché nonostante mi senta dare del boomer con una certa frequenza io, tecnicamente, faccio parte della Generazione X, è stata per il romanzo di Douglas Coupland, uscito nel 1991. In realtà il termine era già esistente, ma è in quel preciso momento, con questo libro che si comincia a parlare di Generazione X per i nati tra il 1965 e il 1980. Generazione, quella, precedente alla generazione dei cosiddetti Baby Boomers, i boomer di cui sopra, nati a cavallo della seconda guerra mondiale e che del boom economico erano stati artefici o comunque avevano beneficiato. Le generazioni, così ci avevano spiegato a scuola, si alternavano ogni venticinque anni circa, in sostanza il lasso di tempo nel quale una persona divenuta adulta potesse diventare genitore, ma le generazioni non avevano nomi esotici, a parte forse la Lost Generation che Hemingway ha raccontato in Festa mobile.
Come a voler dare un senso al sottotitolo del romanzo di Coupland, “racconti per una cultura accelerata”, da quel momento i tempi tra una generazione e l’altra hanno cominciato a assottigliarsi, al punto che oggi si parla di generazioni anche a distanza di cinque, sei anni. Dopo la Generazione X, infatti, c’è stata la Y, meglio nota come quella dei Millennials, coloro che in pratica sono diventati maggiorenni intorno al 2000, per poi dare spazio alla Generazione Z, o Centennials, cioè i nati tra la fine dei 90 e gli anni 10 del nuovo millennio, seguita dalla Generazione Alpha, generazione che ha negli attuali dodicenni i rappresentanti più anziani. Metteteci poi i nativi digitali, quelli coi social, gli hikikomori, e davvero il quadro d’insieme si fa sempre più confuso, sia per chi di queste categorie fa parte, ma tanto più di chi ne è semplice spettatore. Non dovrebbe del resto sorprenderci che oggi, nell’era di Tik Tok e dei social, ci sia una categoria di bambini che viene già indicata come una precisa generazione. Sarà mica un caso che sono loro il target più vezzeggiato dall’industria dell’intrattenimento oggi, o sarà un caso che il video con più views della storia, oltre nove miliardi e mezzo, in continua crescita, è quella Baby Shark che un tempo avrebbe potuto ambire al massimo a vedersela con Le tagliatelle di Nonna Pina e Il coccodrillo come fa.
Nel 1968, quando io non ero ancora nato, internet non era ancora stata inventata, né predetta dagli scrittori di fantascienza, il cyberpunk sarebbe arrivato solo nei primi anni Ottanta, figlio del punk arrivato nel 1977, e quando a dirla tutta ancora l’uomo non era neanche andato sulla Luna, sempre in tema di fantascienza, e i capelloni della tombola di mio nonno ancora vivevano l’estate dell’amore, prima di Woodstock, Andy Warhol ebbe a dire la famosa massima su un futuro prossimo nel quale chiunque avrebbe potuto ambire a quindici minuti di notorietà. Ignorava, l’artefice più pop della popart, che quei quindici minuti erano decisamente troppi rispetto ai canoni iperaccellerati che Tik Tok, oltre cinquant’anni dopo, avrebbe imposto: quindici secondi e via, chi c’è c’è. Tutto a portata di giovanissimi, la Generazione Alpha di cui sopra, al limite la Generazione Z, sempre che non siano già troppo vecchi.
Una sorta di strapotere infantile, a discapito dei numeri che vogliono, almeno in Italia, le generazioni più anziane assai più popolate di quelle degli adulti di domani, e anche a discapito di una inesistente capacità economica di chi, evidentemente, non lavora. In questa iperaccellerazione, che ha letteralmente reso la realtà evaporata, frammentaria, altro che la società liquida di Bauman, la soglia di attenzione ridotta sempre più all’osso, la capacità e anche voglia di approfondire ai minimi termini, si tende a guardarsi, se stessi e il proprio gruppo/generazione di appartenenza, in maniera assolutistica, come se il nostro mondo fosse il mondo e basta, finendo per non riuscire più neanche a concepire un confronto col passato, quindi con chi c’è stato e ancora c’è da più tempo di noi. Si accusano le altre generazioni di non capirci, in questo sì potremmo ravvisare una trasversalità comune, si addossano a chi ci ha preceduto le colpe rispetto a un presunto disagio presente o futuro di cui pagheremo scotto, si tende a liquidare ogni critica come una calcificata impossibilità di mettersi nei nostri panni, quella sì imputata a una ciclicità che, come ho detto prima, in realtà non è poi così antica.
Torno indietro. Per un attimo. Di pari passo con l’invenzione dei giovani, come categoria di riferimento del marketing, coi loro desideri e quindi le loro necessità, desideri e necessità che sarebbero presto diventati prodotti per il mercato, in Italia, è iniziata una operazione di diffusione di massa dell’italiano come lingua comune, questo anche grazie alla televisione, ricordiamo il programma del maestro Manzi, andato in onda dal 1060 e il 1968. Fino a quel momento l’italiano era lingua per pochi eletti, e quella delle istituzioni, la gente comune ne parlava una versione geograficamente connotata, dialettale. Questo ha fatto sì che, col tempo, la lingua formale ha cominciato a cambiare, divenendo sempre più simile a quella parlata. L’influenza della lingua dei media a rendere lo scritto sempre più simile al parlato. Chiaramente coi social media questa accelerazione ha avuto un’impennata, lasciando che la lingua dei nostri padri, ottocentesca, finisse per uscire definitivamente di scena.
Arriviamo verso la conclusione.
Prendiamo la musica, di quello mi occupo, in fondo. E nello specifico prendiamo la forma canzone. Mai come oggi le liriche delle canzoni attingono dal parlato, come del resto succede un po’ in ogni contesto, almeno in ogni contesto che non sia quello statico dei verbali stradali, delle circolari ministeriali. Ai miei tempi, sì, ai miei tempi, leggevo libri scritti anche nell’Ottocento, e come me tanti altri, e li si leggeva così come erano stati scritti, non tradotti in un linguaggio più contemporaneo. A scuola, nei temi, si usava una lingua piana, che non era certo la medesima che si usava oralmente. Di conseguenza esisteva un linguaggio per ogni situazione.
Oggi si tende a spalmare su tutto, e quindi a omologare, una lingua unica, che diventa la medesima che si usa sui social, nei temi, negli articoli come nelle canzoni. Una lingua fortemente orientata verso il parlato, quasi uno slang che, ovviamente, è incomprensibile a chi non faccia parte della cerchia che quello slang ha creato, priva di quella neutralità che in genere sono tipici degli stilemi di comunicazione, comprensibili per un pubblico generico. Così, di lavoro faccio il critico musicale, mi capita di ascoltare tracce trap di cui non comprendo neanche una singola parola, e non parlo di chi, penso a Thasup, si è inventato letteralmente una lingua propria, sia chiaro.
Cercare di essere compresi da chi non parla la stessa lingua non è evidentemente una necessità di chi adotta questa forma, parlo di un qualsiasi brano trap, con parole che non cercano di comunicare a altri che a chi è una sorta di coscritto. Ma forse è solo un modo diverso di ammazzare i padri, quella forma di contestazione che proprio nel 1968, quando Andy Warhol parlava di un futuro anche troppo ottimistico, il maestro Manzi riteneva ormai concluso il suo lavoro di alfabetizzazione della nazione e io venivo concepito, trovava la sua prima incarnazione nelle barricate parigine. Ogni epoca ha la controcultura che si merita, potrei chiosare dando un senso a quel sentirmi in continuazione definire boomer, io che sono nato nel 1969, che porto i capelli lunghi come i capelloni della tombola di mio nonno Mario, nato nell’Ottocento, indosso calzoni corti come nelle foto di mio padre a due anni e che sono passato da Modugno all’hardcore americano senza battere ciglio, per poi passare la mia mezza età a provare a capire cosa biascicano dei ragazzini nelle loro canzoni trap. Ok, boomer… ok boomer un cazzo.