
Negli anni mi sono ritrovato, non certo senza una mia parte di responsabilità, a vestire i panni dell’orso borbottante. Sarà che, parlo della vita privata, mia moglie è decisamente più solare di me, sarà che come critico musicale e scrittore non ho mai lesinato di dire quel che penso, anche in negativo, sarà, magari, che in un mondo di quadrupedi starsene in un angolo eretto su due zampe è qualcosa che ti caratterizza, vallo a sapere. Nei fatti sono diventato quello “cattivo”, e ci sta, quello “temuto”, anche, ma anche quello che non c’è. Non c’è agli eventi, non c’è in Sala Stampa, non c’è alle conferenze e più in generale se ne sta per conto suo, l’orso borbottante, appunto. Una bella chance, quella di esserci anche non essendoci, converrete, perché cosa c’è di meglio che interpretare il ruolo di quello che se ne sta a casa, mentre tutti gli altri se ne sono dovuti uscire sotto la pioggia, mettersi in qualche modo in ghingheri, hanno dovuto passare del tempo a fraternizzare con gente con la quale, in fondo, non hanno nessun piacere a stare? Mettiamola così, nella famosa domanda amletica di Nanni Moretti, “mi si nota di più?”, io ho optato per non esserci. E in quanto non essente sono. Per dirla con Celentano, esco di rado, e parlo ancora meno.
Ci sono però occasioni nelle quali esserci è importante, e allora faccio lo sforzo di svestire quei panni orseschi, finendo poi per stringere mani, prendermi e dare pacche sulle spalle, abbracciare, anche, molto spesso circondato da gente che mi saluta e di cui io, con la memoria che ho, non ricordo né il nome né perché ci si conosca, il tutto accompagnato dalla classica frase “ah, guarda chi si vede…”, come si trattasse di un evento eccezionale. Quelli, in genere, sono in realtà momenti che ho scelto con cura, Wolverine che decide di andare in paese, cercando non tanto di curare gli aspetti sociali, ripeto, il non esserci è comunque spesso un esserci ancora più evidente, quanto piuttosto di andare a vedere e ascoltare qualcosa che so o immagino sarà potente, a volte anche fondamentale. L’arte, in genere, funziona così, ha un potere sulle nostre vite che spesso non le riconosciamo. Riesce a sublimare certi momenti malefici, come a rendere migliori momenti già buoni di loro.
Ieri, per dire, non era una bella giornata. Non lo era per motivi miei privati, ultima di una serie di giornate non eccezionali. Intendiamoci, non che arrivati a una certa età, io non sappia cogliere il bello in quello che mi succede e mi succede intorno, la prima presentazione del libro di mia figlia, mercoledì, al Gogol Ostello di viale Bligny è indubbiamente stata magnifica, momento che ritengo assai più rilevante delle presentazioni dei libri miei che mi capita ancora raramente di fare. Come credo siano accaduti anche altri eventi che, in un periodo oscuro, io possa almeno catalogare come consolatori, ma è indubbio che ci sono fasi delle vita nella quale, vuoi per l’anagrafe, vuoi perché così girano a volte le cose, sembra che il destino ci voglia comunque tenere in affanno, immergendo la nostra testa sott’acqua, lasciandoci giusto il tempo di respirare, prima di una nuova furiosa immersione.
È con questo spirito, di uno che è del tutto intenzionato a tenere la testa fuori dall’acqua, che ieri sera ho deciso di uscire di casa, nonostante fuori di casa acqua ce ne fosse, leggi alla parola pioggia. Per me, ieri sera, tenere la testa fuori dall’acqua era, questa la mia intenzione, andare a teatro, un teatro nuovo, nel quale non sono mai stato, a sentire il concerto di una artista che molto apprezzo, ma che non avevo ancora mai visto dal vivo, Agnese Valle. Così ho preso la macchina e mi sono diretto verso zona Porta Romana, dove si trova appunto il Teatro degli Angeli, nuova avventura da poco intrapresa dal gruppo che ha già risollevato e dotato di vita propria il Teatro Oscar, tra questi Giacomo Poretti di Aldo Giovanni e Giacomo. Un teatro, anche questo, nato intorno a una parrocchia, credo la parrocchia degli Angeli Custodi, in via Colletta. Arrivo in orario, nonostante trovare parcheggio da queste parti sia faccenda complessa, e mi interrogo su che tipo di pubblico troverò qui. Agnese Valle è una delle voci più interessanti del cantautorato femminile italiano, e ha tirato fuori ormai oltre un anno fa questo album, I miei uomini, tutto dedicato a canzoni scritte da cantautori, presenti in tracklist seguendo un filo logico, come fosse una sorta di percorso ragionato. Tutte canzoni edite, tranne La fioraia, che è stata scritta per lei da Pino Marino, a sua volta cantautore di gran talento, leggo sulla locandina regista di questo spettacolo. Ecco, questo dettaglio l’avevo in realtà già incamerato, ma son giorni complessi, ripeto, incamerare un dettaglio non significa anche decifrarlo, comprenderlo. Se Pino Marino è il regista di questo spettacolo, I miei uomini di Agnese Valle, forse I miei uomini di Agnese Valle non è un concerto, ma uno spettacolo. Il pubblico che affolla, letteralmente, il Teatro degli Angeli, pieno in ogni ordine di posto, è in effetti ai miei occhi più un pubblico teatrale che da concerto. Forse loro, a mia differenza, sanno che quello cui stiamo per assistere non è un concerto, o non è solo un concerto. Io no. Ci sta. Sono qui per tenere la testa fuori dall’acqua, per distrarmi, come a volte la musica, in realtà il mio mestiere, ha ancora la capacità di fare.
In attesa che lo spettacolo parta scambio quattro chiacchiere con amici e vecchie conoscenze presenti, finendo poi per sedermi in seconda fila, io abituato a non esserci o a starmene comunque in ultima fila, spesso laterale, così da potermene andare senza che nessuno se ne accorga. Un metodo appreso da Luca De Gennaro, che ha chiamato questo modo di fare “alla chetichella”, lui che a mia differenza è spesso ovunque, o sempre ovunque, l’idea di andarsene senza stare a salutare tutti e senza dover aspettare la fine, per poter magari andare altrove nel suo caso una necessità, nel mio una scelta.
Si spengono le luci. La scena è stranamente asimmetrica. Guardando il palco sulla sinistra ci sono gli strumenti, un paio di tastiere, la batteria, una chitarra sullo sfondo. Non esattamente al centro si trova il microfono con l’asta. Poco più a destra, guardando il palco, un proiettore di quelli vintage per le diapositive, uno schermo che occupa la metà destra dello sfondo lì non per caso. Entrano i tre musicisti che accompagneranno Agnese, uno alla volta, e si posizionano al proprio posto, poi entra Agnese, che parte cantando La valigia dell’artista di Francesco De Gregori. Un inno allo stare sul palco, dove si parla di attori e di musicanti, il senso è il medesimo. L’arrangiamento si distacca molto dall’originale, come del resto su disco, la voce piena e calda che ben conosco a riempire il teatro e non solo. Agnese finisce di cantare e comincia a parlare. Capisco. Questo non è un concerto. Non è solo un concerto. Non lo sarà per tutta la sua durata, le parole a occupare metà della scena, le diapositive proiettate a scandire i titoli dei vari capitoli di questo romanzo di formazione, la sua biografia alternata a aneddoti più o meno veri relativi ai suoi rapporti coi grandi nomi delle grandi canzoni che interpreterà. Queste canzoni: la già citata La valigia dell’attore, associata al monologo “Salto nel buio”, quello di chi entra in una sala senza sapere chi si troverà di fronte e cosa succederà da lì in poi, l’intro musicale era invece associata a “Chi è di scena”. Poi Autogrill di Guccini, associata al monologo “L’incontro”, Baratto di Renato Zero a “Pezzi di ricambio”, Telefonami tra vent’anni, con tanto di assolo della nostra al clarinetto, a “Un tempo migliore”. E ancora Altrove di Morgan a “Un cuore d’appartamento”, Il testamento di Appino, dedicato al suicidio di Mario Monicelli, associato al monologo “La scelta”, la Kurt Cobain di Brunori SaS a “Quello che non vedi”. Per poi arrivare all’unico inedito della serata, La fioraia di Pino Marino, con “L’attesa e la pazienza” e il finale affidato a Ragazzo mio di Tenco, con “Ciò che resta”. Queste erano le canzoni del disco, cui si sono aggiunte Maledette malelingue di Ivan Graziani, del resto lei si chiama Agnese, la canzone era parte dell’album del suo album Allenamento al buonumore, e Ventilazione di Ivano Fossati, presente nel suo album Ristrutturazioni, rispettivamente con monologhi intitolati “Di bocca in bocca” e appunto “Ristrutturazioni”.
Che poi, a dirla tutta, chiamarli monologhi è evidentemente sbagliato, perché non sono monologhi a se stanti, ma parti di un monologo, o testi dello spettacolo che dir si voglia, dove Agnese ci accompagna dentro canzoni importanti per lei, quasi mai le più famose degli artisti famosissimi che omaggia, finendo per costruire qualcosa di unico, anche grazie a chi l’accompagna sul palco, Annalisa Baldi, chitarre, Simone Ndiaye, piano e tastiere e Luca Libonati alla batteria.
E qui torniamo a lì dove ho cominciato, perché anche io, si sarà notato, sono uso parlare, monologare, partendo da me, o da qualcosa che possa essere riconducibile a un me pubblico/privato credibile per chi mi legge, nel caso di Agnese ascolta, autofiction o memoir che era lì anche prima che l’autofiction e il memoir venisse eletto a genere letterario del qui e ora, il qui e ora di adesso, 2025. Ero andato al Teatro degli Angeli per provare a non soffocare, contando sull’arte di Agnese Valle per una mano in questa direzione, la distrazione di un concerto, questo contavo di trovare, e questo non ho trovato, perché Agnese Valle, potere dell’arte, mi ha curato, coccolato, abbracciato, e lo ha fatto portandomi dentro un posto caldo e accogliente, I miei uomini, appunto. Con qualche spigolo, certo, qualche risata, qualche momento di commozione, ma comunque un momento di cura, inteso come quelle che si impartiscono a chi sta male, ma anche di attenzione, alla milanese, “mi curi il posto mentre vado in bagno”, un modo di dire che nei miei primi anni in città mi faceva molto ridere, ma che ora capisco un po’ di più. Succede, di essere curati dalla musica, anzi, la musica dovrebbe quando è arte portare proprio a quello, non necessariamente perché si è feriti, ma anche magari quando si cerca qualcuno con cui ridere, o sorridere, qualcuno con cui fare un pezzo di strada, qualcuno cui aggrapparsi per tenersi a galla. Agnese Valle lo ha fatto, e non so neanche se fosse esattamente questa la sua intenzione, parlo di quelle intenzioni che ci dichiariamo e dichiariamo poi agli altri, ma l’ha fatto, con uno spettacolo importante, ben strutturato, anche grazie alla regia di Pino Marino, lasciando che per qualche ora i miei fantasmi certo non scomparissero, ma fossero almeno più gestibili, a tratti dando anche loro un nome, o dando loro il mio nome, e come ben sanno gli appassionati di thriller e polizieschi, non c’è niente di peggio per chi tiene ostaggio qualcuno che fargli sapere il nome dell’ostaggio, modo per creare una connessione umanizzante, vai poi a fargli male se ci riesci, bestia.
Quando sono uscito, sereno, fuori stava ancora piovendo, come fossimo in una partita per principianti di poker. Mi è venuta in mente quella vecchia battuta di Frankestein Jr, e entrando in macchina ho sorriso, poi sono andato a cercare Ventilazione di Ivano Fossati e sono tornato a casa.